Il paradosso di Boeri: importare pensionati dal nord Europa 29.10.2017

C’è il paradosso di Zenone (“Achille e la tartaruga”), il paradosso di Epimenide di Creta (o “del mentitore”) il paradosso di Russel (o “del barbiere”) ed ora – ma non sarà ricordato nei libri di storia e tantomeno in quelli di matematica o di logica – quello di Boeri.

In cosa consiste?

L’idea del presidente dell’INPS Tito Boeri è quella di attirare in Italia pensionati dall’estero: un piano da attuare l’anno prossimo per invogliare i pensionati stranieri, specie quelli dei Paesi nordici, a stabilirsi nel nostro solatio Paese.

La notizia è stata diffusa da alcuni organi di informazione in questi giorni (Corriere della sera del 22.10; Investireoggi.it del 23.10, ed altri).

Boeri avrebbe detto: “Penso a qualcosa da costruire con i nostri Comuni delle zone interne. Creare delle senior house con una buona copertura di servizi medici per accogliere i nuovi arrivati”.

Alla domanda se questa proposta non presupponga degli incentivi fiscali, Boeri avrebbe risposto “Si può vedere, magari validi solo per tre anni. Se ci organizziamo possiamo essere competitivi”.

L’idea di “importare” pensionati, in realtà, non è nuova.

L’ex sottosegretario del MEF Enrico Zanetti l’aveva già avanzata (senza esito) in un emendamento alla manovra finanziaria di primavera, approvata con la legge 21.6.2017, n. 96, di conversione del D.L. 24.4.2017, n. 50.

L’emendamento del leader di Scelta Civica prevedeva una tassazione fissa del 10%, per 15 anni, a favore dei pensionati di Stati esteri che trasferissero la residenza in Italia.

In pratica, si voleva far diventare il nostro Paese un paradiso fiscale per i pensionati esteri.

Così, nelle intenzioni, si sarebbe aumentata la domanda interna di beni e servizi, nonché le entrate fiscali, con giovamento per l’economia italiana.

Si tratterebbe di imitare altri Paesi che già lo stanno facendo, come il Portogallo, dove chi trasferisce la residenza viene esentato da qualunque imposta sulla pensione per 10 anni.

Si approfitterebbe, in sostanza, di quanto prevedono al riguardo le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, in vigore tra lo Stato italiano e gli altri Stati.

Queste convenzioni seguono lo schema-tipo dell’OCSE che, all’art. 18, prevede che la tassazione sulla pensione avvenga da parte dello Stato di residenza (dove il pensionato ha o trasferisce la residenza).

Il presidente dell’INPS non propone solo l’accoglienza, agevolata fiscalmente, dei pensionati esteri, come nella proposta Zanetti, ma si spinge a visionarie e stravaganti idee urbanistiche di accoglienza in Comuni delle zone interne (per ripopolare borghi e paesi in declino demografico?), di realizzazione di “senior house” (ma chi pagherà queste strutture?) ), con una buona copertura di servizi medici (dove sta allora la convenienza economica del progetto?).

Viene da chiedersi: che c’azzecca Boeri a fare queste proposte?

Essendo presidente dell’INPS, non dovrebbe invece occuparsi dei pensionati italiani, anziché di quelli stranieri?

Di questi ultimi si occuperà, se del caso, lo Stato che eroga la loro pensione.

Che c’entra l’INPS?

Che titolo ha Boeri ad occuparsi della defiscalizzazione dei pensionati stranieri e della loro accoglienza agevolata nel nostro Paese?

Non dovrebbe, invece – qui sta il paradosso – pensare ai NOSTRI pensionati che emigrano, spinti dal disagio economico di basse pensioni e di elevata tassazione, e fare proposte intese a frenare questo esodo ed a far tornare quelli che già sono fuggiti all’estero?

Lorenzo Stevanato, ex magistrato amministrativo

ARTICOLO di POERIO e SIZIA sulla SENTENZA della CONSULTA – 28.10.2017

Vilipendio della Costituzione della Repubblica

La Corte costituzionale in “confusione di ruoli” rispetto a Governo e Parlamento

Per giudicare una sentenza (ci riferiamo alla sentenza 25/10/2017 della Consulta) bisognerebbe attendere il relativo dispositivo, confrontarlo con quello della precedente sentenza 70/2015 su analoga materia, e poi giudicare e commentare secondo logica, serenità, fedeltà rispetto ai principi e valori contenuti nella Costituzione vigente.

Tuttavia il comunicato stampa della Corte (datato 25/10/2017) esige un commento immediato, visti i contenuti sfacciati, fuorvianti ed ipocriti in esso contenuti.

Primo aspetto: afferma il comunicato che la Corte costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del decreto legge n. 65 del 2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha inteso “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015”.

La Corte, evidentemente, mostra di credere al “fine dichiarato” dal legislatore nelle premesse del decreto (cioè dare attuazione alla sentenza 70/2015), anziché valutare, nel merito, le disposizioni di legge in ottemperanza ed attuazione di un preciso giudicato costituzionale (direttamente ed immediatamente applicativo), sentenza pertanto che risulta platealmente disattesa.

Infatti il d.l. 65/2015 (convertito poi in legge 109/2015), anziché prendere atto dell’art. 136 della Costituzione, secondo cui “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma (ndr: nella fattispecie l’art. 24, c. 25, della legge Fornero 214/2011, che limitava la perequazione, nel biennio 2012 e 2013, solo nei confronti delle pensioni lorde di importo  fino a 3 volte il minimo INPS) cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, facendo così rivivere i criteri di indicizzazione delle pensioni preesistenti rispetto alla legge Fornero, cioè quelli della legge 388/2000 (rivalutazione al 100% fino a 3 volte il minimo INPS; al 90% tra 3 e 5 volte il minimo; al 75% oltre le 5 volte), ha invece “preso a prestito” i criteri peggiorativi di cui alla legge Letta (L. 147/2013), aventi efficacia nel triennio 2014-2016, poi prorogati per un nuovo biennio (fino al 31/12/2018) dal Governi Renzi (L. 208/2015).

Infatti la legge Letta peggiora i criteri di perequazione, ampliando da 3 a 5 le fasce economiche di riferimento, riducendo le percentuali di rivalutazione delle pensioni oltre 4 volte il minimo INPS e non discrimina più l’indice di rivalutazione a scaglioni, cioè in modo decrescente tra le fasce di diverso e maggiore importo delle pensioni, ma tra valore complessivo della pensione stessa, penalizzando così quelle di importo medio-alto.

Ma anche accettando la “disinvoltura irrituale” della efficacia retroattiva di una legge successiva (come risultano essere sia la legge 147/2013, sia la legge 109/2015, rispetto al biennio 2012 e2013), il decreto Poletti-Renzi, anche laddove mostra di dare attuazione, parziale e tardiva, ai principi della sentenza 70/2015, incorre nei seguenti abusi:

1) rispetto alle variazioni ISTAT certificate nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo INPS è stato riconosciuto a titolo di perequazione solo il 40% (rispetto al 95% della legge 147/2013); ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo INPS solo il 20% (anziché il 75%); ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo INPS solo il 10% (anziché il 50%, sempre ai sensi della legge 147/2013); 

2) nessuna indicizzazione è stata riconosciuta, per il biennio 2012-2013, ai percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, confermando così pienamente, per questo aspetto, l’illegittimità costutuzionale dell’art 24, c. 25, della legge 214/2011 (già sancita dalla sentenza 70/2015 della Corte, che non fa alcun “distinguo” circa l’applicabilità dei principi costituzionali, come richiamati e ribaditi, per i diversi importi delle pensioni in godimento), a fronte di una piena e confermata indicizzazione  del 100% solo per le pensioni fino a 3 volte il minimo INPS;

 3) il decreto 65/2015, nato per sostituire una norma illegittima, dichiarata incostituzionale ed avente in origine efficacia biennale, non si limita ad avere un effetto retroattivo sul biennio 2012-2013, ma ha addirittura una efficacia procrastinata nel tempo, infatti incide sul “trascinamento” degli adeguamenti parziali e tardivi concessi ai percettori di pensioni tra 3 e 6 volte il minimo INPS, che vengono infatti raffreddati e contingentati, nel 2014 e 2015 (al fine dei successivi incrementi) al 20% dei miglioramenti perequativi già concessi nel biennio precedente (con abbattimento quindi dell’80%) ed al 50% (con abbattimento percentuale quindi di pari importo) dal 2016 e per gli anni successivi. Insomma non si era mai visto, in materia di indicizzazione, un “go and stop” di questo tipo, con il paradosso che solo i pensionati tra 3 e 6 volte il minimo INPS hanno avuto un riconoscimento, a titolo di perequazione, negli anni 2016 e 2017, quando tutti gli altri pensionati non hanno avuto benefici in ragione del fatto che il tasso di svalutazione e rivalutazione è stato riconosciuto, per entrambi gli anni, in misura dello 0%. L’anomalia anzidetta è dipesa solo dai “pasticci” del duo Renzi-Poletti, che hanno calpestato grossolanamente la sentenza 70/2015, finendo per restituire ai pensionati circa il 10% di quanto loro maltolto nel biennio 2012-2013; 4) non una parola, infine, è stata spesa, nella legge 109/2015, su interessi e rivalutazione, pur dovuti sulle somme percepite in ritardo (dal 2015 in poi, anziché nel 2012 e 2013) dai pensionati in questione.

Secondo aspetto: afferma il comunicato stampa che la Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del Salva Italia annullate nel 2015 con tale sentenza (ndr: la n. 70/2015) – ” la nuova e temporanea disciplina realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze di finanza pubblica”.

A tal proposito, per amor del vero, occorre chiarire:

–          che la disciplina di cui al d.l. 65/2015 non è “nuova”, certamente per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS, infatti è esattamente rimasta quella vecchia ed illegittima della legge Fornero, censurata dalla sentenza 70/2015;

–          e neppure può definirsi “temporanea”, infatti gli effetti penalizzanti dei provvedimenti in esame (de-indicizzazione totale o parziale delle pensioni) incidono in modo permanente sulla misura delle pensioni in godimento per tutta la vita residua dei pensionati stessi, aventi cioè misura dell’assegno previdenziale di importo lordo oltre le 3 volte il minimo INPS;

–          che i pensionati penalizzati dalla legge Fornero, e dal decreto 65/2015, sono in buona parte quelli stessi già colpiti nel 2008, e poi ancora nel 2012 e 2013 (con indicizzazione azzerata), e nuovamente dalla limitazione, in misura del 40-45% sul valore complessivo della pensione, rispetto agli indici pieni di rivalutazione, nel 2014, 2015, 2016, 2017, 2018 (8 anni nell’arco di 11 anni, a legislazione vigente, quindi il 72% del periodo);

–          e poi, come può definirsi “non irragionevole” il “bilanciamento”, riferito solo ai pensionati oltre le 3 volte il minimo INPS, tra i diritti dei pensionati stessi e le esigenze di finanza pubblica? Ci vuol proprio una bella dose di ipocrisia fare riferimento al criterio, improprio ed indiretto, della “non irragionevolezza”, rispetto ai criteri della ragionevolezza e della proporzionalità, che finora (in decine di sentenze fondamentali della Corte) hanno sempre rappresentato il “faro” per gli orientamenti ed le decisioni in materia previdenziale!;

–          ci vuol anche un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre  i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzione e contribuzione previdenziale, può poi trovarsi a godere di una misura inferiore di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.). E come può il Prof. Prosperetti svilire significati e valori dei diritti acquisiti, quando l’istituto della pensione rappresenta proprio la “summa” dei diritti acquisiti, derivanti da una vita di lavoro e da adeguate contribuzioni previdenziali?;

–          e come è possibile e giustificabile che lo Stato, per tentare di correggere i propri “errori” di bilancio, si rivalga sui diritti acquisiti e consolidati dei pensionati (categoria debole, per definizione), anche a costo di vilipendere la Costituzione, piuttosto che evitando gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia di bonus introdotti dal Governo Renzi, che rappresentano quanto di più discrezionale e discriminate possa esistere, mentre si negano i diritti veri, dai rinnovi dei contratti all’adeguamento delle pensioni), nonché combattendo  la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.?   

Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dal “tassare due volte” i pensionati che, lo ricordiamo, hanno già il carico fiscale più alto in Italia (IRPEF, patrimoniali vere o mascherate, addizionali regionali e comunali, ecc.), come  nei confronti degli altri Paesi europei, senza peraltro godere di alcun riguardo fiscale, con riferimento ai titolari di pensioni medio-alte, i più tartassati. E che beneficio ha prodotto il sacrificio imposto ai pensionati in questi anni, in particolare nel biennio 2012-2013, rispetto al nostro deficit annuale, ovvero rispetto alla montagna del debito cumulato negli anni, entrambi accresciuti durante il Governo Monti-Fornero?;

–          la Corte, inoltre, si lascia trascinare dai cattivi legislatori in una sorta di “trappola”, quando cioè pare giustificare un criterio “di tipo  reddituale” a sostegno del blocco della indicizzazione delle pensioni di maggiore importo, assimilando di fatto (anche se non in modo esplicito) la loro mancata rivalutazione ad una pretesa tributaria, ma  in questo caso non sarebbero rispettati i due principi costituzionali (di cui all’art. 53 della Cost.), cioè la necessaria “universalità” del prelievo e la progressività dello stesso, infatti, nel caso di specie, c’è chi concorre, e chi no, alle necessità dello Stato e non c’è traccia di “progressività” tra chi percepisce il 100% della  rivalutazione dovuta delle pensioni e chi lo 0%, o ancor meno dello 0%, essendo intaccato (con il cosiddetto “contributo di solidarietà” di tipo espropriativo, in aggiunta alla mancata indicizzazione) non solo il reale potere d’acquisto delle pensioni, ma addirittura incisa la misura nominale della pensione maturata e già sacralizzata con decreto dell’Ente gestore (INPS, ex INPDAP);

–          infine, l’obbligo costituzionale di cui all’art. 81 della Cost. (cioè il pareggio annuale di bilancio) preesisteva alla sentenza 70/2015, e le norme costituzionali di cui agli artt. 3, 36, 38, 53 e 136 sono le stesse in vigore ai tempi della sentenza 70/2015, come del decreto 65/2015, quindi delle due l’una, e cioè  la sentenza 70/2015 non rispetta fedelmente principi e valori costituzionali vigenti, ovvero (come noi crediamo) non li rispetta il decreto 65/2015. E tuttavia  la sentenza della Corte del 25/10/2017 tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè di realizzare la quadratura del cerchio, vale a dire respingendo le censure di incostituzionalità del decreto 65/2015, sollevate da una quindicina di giudici delle diverse Corti regionali dei Conti del nostro Paese, a seguito di migliaia di nostri ricorsi e diffide.

CONCLUSIONI

Tutto ciò premesso e considerato, è giunto il tempo che anche la Corte  costituzionale (ammesso che sia libera di attenersi ai principi e valori della Costituzione vigente, senza ridursi a strumento ancillare e complice del Potere) abbandoni ipocrisie ed ambiguità, riconoscendo che gli interventi recenti in materia previdenziale, in particolare quelli di cui alle leggi 247/2007, 214/2011, 147/2013 e 109/2015, equivalgono di fatto a prestazioni patrimoniali di natura sostanzialmente tributaria, al di là del nomen juris attribuito (de-indicizzazioni, contributi di solidarietà, ecc.), in quanto: doverose e coatte, non connesse ad un rapporto sinallagmatico tra le Parti, collegate esclusivamente alla pubblica spesa (vincoli di bilancio, riduzione della spesa previdenziale, ecc.). Oggi assistiamo invece allo scandalo che la legislazione previdenziale diventa strumento improprio per la politica dei redditi, della ridistribuzione delle risorse, quindi dello stesso assetto socio-economico del Paese.

Inoltre è giusto porsi anche il problema dei criteri di nomina dei giudici costituzionali, che non avviene ordinariamente sulla base di criteri di competenza, qualità, saggezza ed imparzialità, ma secondo criteri di discrezionalità politico-partitica. Sarebbe infatti inquietante pensare che la recente “capriola” fatta dalla Corte costituzionale, su identica materia, avvenuta a distanza di poco più di due anni, sia dipesa solo dalle nomine dei Prof.ri Augusto Antonio Barbera e Giulio Prosperetti (avvenute nel dicembre 2015, mediante elezione parlamentare), dopo che gli stessi avevano pubblicamente criticato la sentenza 70/2015. Si spigherebbero allora anche le difficoltà nella scelta politica per ricoprire i posti vacanti con i due giudici anzidetti, ed il lungo braccio di ferro tra le forze politico-partitiche, tese alla ricerca di giudici con il cuore, e forse anche con la mente, collocati “a sinistra”, quindi verosimilmente più compiacenti nei confronti del “Principe di turno”.

Ma in questo modo la Corte perde ogni credibilità, se insegue l’input politico, sconfessando se stessa; se rinuncia al suo ruolo istituzionale di controllo sulla correttezza e coerenza del divenire legislativo in rapporto ai principi costituzionali; se interviene ex post a “coprire e giustificare” ogni disinvoltura dei legislatori; se i giudici “leggono” la Costituzione con gli occhiali della loro “parte” politica o convenienza partitica, ecc. 

Il risultato di quanto anzidetto è che il legislatore (a chiudere il circolo vizioso) non rispetta più né lettera né spirito delle sentenze della Corte (come è avvenuto con il decreto 65/2015 rispetto alla sentenza 70/2015), nella convinzione  la Corte stessa sarebbe poi intervenuta a “ricucire lo strappo”, come in realtà si è  verificato con la sentenza 25/10/2017, di significato opposto, a giudicare dal comunicato stampa in esame.

Ugualmente era avvenuto con la legge Letta 147/2013, che ha riproposto in modo aggravato il contributo di solidarietà, già bocciato con sentenza della Corte 116/2013, poi re-intervenuta per “metterci una pezza”.

Con questo modo di procedere la Corte non assolve al suo ruolo di controllo e di educazione legislativa ed i giudici costituzionali non meritano allora  i loro privilegi e le loro retribuzioni, se finiscono sempre più per assomigliare ad una copia stinta ed impropria degli stessi legislatori ordinari.

Ciò nonostante noi della FEDER.S.P.eV. ( Federazione Sanitari  Pensionati e Vedove/i) rimaniamo in campo a testimoniare valori e principi costituzionali, più e meglio forse degli attuali giudici, allarmando doverosamente la categoria rappresentata, specie in prossimità delle prossime elezioni politiche, con il grido: tremate pensionati, i “barbari” son tornati!

Speriamo ora che, almeno in Europa, le magistrature competenti, cui ci rivolgeremo, non abbiano subito e non subiscano la stessa velenosa contaminazione, patita dalla nostra Corte, da parte della cattiva politica, capace di distruggere diritti e principi, indistintamente a danno di persone giovani o anziane.

Prof. Michele Poerio (Pres. Naz. FEDER.S.P.e V.); Dott. Carlo Sizia ( Direttivo Naz. FEDER.S.P.e V)

Altre dichiarazioni e comunicati… (parte 2)

In allegato il comunicato de «le Lotte dei Pensionati», sotto quello del CoNUP COORDINAMENTO NAZIONALE UNITARIO PENSIONATI

Esprimiamo tutta la nostra amarezza per gli esiti della sentenza della Corte Costituzionale sul tema della perequazione negata ai pensionati. Nonostante le mozioni votate da ben 8 consigli regionali che rappresentano comunque oltre il 50% dei cittadini, mozioni spesso vitate all’unanimità che riconoscevano le buone ragioni dei pensionati e la necessità di ripristinare il diritto loro negato. Oltre 17.000 i ricordi presentati, oltre 30.000 le domande presentate all’INPS dono state totalmente ignorate. Numeri che dimostrano una partecipazione attiva e diffusa e che hanno un peso politico rilevante.

Del resto non è possibile continuare a comprimere salari e pensioni perché è statisticamente dimostrato che i redditi familiari sono in calo sistematico, altro che uscire dalla crisi, sono queste stesse misure ad alimentarla.

Infine, ci inquieta che già nella giornata di ieri sua stata annunciato a mezzo stampa l’esito del pronunciamento e con le stesse argomentazioni.

Leggeremo le motivazioni e su quella base faremo le considerazioni sul come proseguire la nostra lotta, in difesa delle pensioni di oggi e di domani, senza escludere un nuovo ricorso alla Corte di Giustizia Europea.

Per il CoNUP

Altre dichiarazioni….

DOPO LA NOSTRA DURA REAZIONE di IERI ALLA SENTENZA DELLA CONSULTA, che legittima i PLURIENNALI FURTI ai PENSIONATI, anche ENZO GALLORI (leader storico dei pensionati delle ferrovie) ha REAGITO IN MODO ANALOGO.

Pubblichiamo volentieri (condividendola) la Sua dichiarazione. (nota di Stefano Biasioli)

DICHIARAZIONE DI ENZO GALLORI (Redattore de: Lotte dei Pensionati)  in merito alla sentenza della Consulta , che ha bocciato i ricorsi dei pensionati:

“Avevamo cento diritti e cento ragioni. In più avevamo decine e decine di sentenze, precedenti, talune della stessa Consulta, che confermavano le nostre ragioni, ma il clima che stiamo vivendo in Italia e lo stravolgimento dei dettati della Costituzione sono ormai arrivati all’interno della stessa Corte Costituzionale, fino a farci pensare che la Carta Repubblicana non esiste più.

L’ingiusta sentenza, anticipata dalla stampa il giorno stesso dell’udienza, ancora prima che si tenesse la riunione, ci fa pensare a sotterfugi, che non aiutano la trasparenza e l’autonomia della Corte Costituzionale.

D’altra parte, con questa sentenza, a parere nostro, viene stravolta la precedente sentenza, che ci riconosceva il pieno diritto alla perequazione. Se i miei nove euro al mese (una tantum), che mi ha dato Poletti nel suo decreto bonus, sono riconosciuti una cifra “equa” come viene stabilito oggi, forse era meglio non darci niente! 

Siamo curiosi di conoscere le motivazioni della sentenza, che sicuramente impugneremo presso la Corte Europea, che in base ai trattati di Lisbona e di Nizza, sottoscritti anche dall’Italia, non potrà che darci ragione. 

Infine la composizione della Corte ha cambiato membri e connotati, con persone, a nostro giudizio, più favorevoli al Governo che non ai lavoratori e ai pensionati, mettendo, secondo noi, in discussione quell’autonomia necessaria per il suo ruolo istituzionale “.

Enzo Gallori

COME VOLEVASI DIMOSTRARE! LA CORTE COSTITUZIONALE HA STILATO UNA SENTENZA POLITICA

CORTE COSTITUZIONALE o CORTE VINCOLATA ALLA POLITICA ?

Siamo stati facili profeti (nostro articolo di oggi su Formiche.net, scritto alle ore 20:00 di ieri).

Alle ore 14:00 del 25 Ottobre siamo venuti a conoscenza del breve comunicato con cui la Corte Costituzionale – dopo la seduta pubblica di ieri – ha bocciato la dozzina di ricorsi (con l’adesione di migliaia di pensionati ricorrenti) contro la mancata perequazione delle pensioni.

Ecco il comunicato della Corte Costituzionale, diffuso dall’Ufficio Stampa:

“La C.Costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del decreto legge 65/2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha inteso dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte Costituzionale n° 70/2015.

La Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del “Salva Italia”  annullate nel 2015 – con tale sentenza la nuova e temporanea disciplina prevista dal decreto legge 65 del 2015 realizzi un BILANCIAMENTO NON IRRAGIONEVOLE  tra i DIRITTI dei PENSIONATI e le ESIGENZE della FINANZA PUBBLICA “.

Ovviamente, Noi “Pensionati esasperati” NON SIAMO D’ACCORDO CON QUESTA SENTENZA. Non lo possiamo essere, perchè :

a) non si tratta di una “nuova e temporanea disciplina” (nuova e temporanea, per un “furto” che si protrae dal 2012 al 2018?);

b) non si tratta di “bilanciamento non irragionevole tra diritti ed esigenze”, ma di una rapina a danno di una sola categoria (i pensionati) e non dell’intera comunità dei contribuenti;

c) le esigenze della finanza pubblica non possono essere caricate solo sulle spalle dei soli pensionati, senza coinvolgere  anche (se del caso) i cittadini in attività lavorativa.

Si tratta di una sentenza ingiusta, che spalanca la porta ad ogni futuro “taglieggiamento delle pensioni”, giustificabile sulla base delle esigenze della finanza pubblica.

Si tratta di una sentenza che lede i diritti acquisiti, creando incertezza nei pensionati perchè dimostra che il loro assegno pensionistico (frutto di decenni di contributi versati) viene considerato dalla Consulta non un diritto certo ed intoccabile ma una “concessione”, passibile di tagli.

Aspettiamo di leggere e di commentare, con calma, il dispositivo integrale della Sentenza. Ma, già da ora, fissiamo alcuni paletti.

Si tratta di una classica sentenza “politica” (essendo oggi la Consulta composta da una prevalenza di giudici scelti dalla politica, per “meriti politici”), con la quale la Consulta contraddice se stessa e le sue precedenti – molteplici – sentenze, sullo stesso argomento.

Riassumendo (e per semplificare!) la Consulta ha detto/scritto che la Sentenza della C. Costituzionale n°70 del 2015 è stata correttamente applicata/interpretata dalla Legge 109/2015 (Settembre 2015) varata dal Governo Renzi.

E, così, in un colpo solo, la C. Costituzionale ha disatteso le più elementari norme del diritto, consentendo alla politica (Governi Letta, Renzi, Gentiloni) di “bastonare” solo i pensionati, per “salvare i conti dell’INPS e dello Stato”. Come se, in Italia, a parità di reddito, solo i pensionati (e non anche i lavoratori attivi) debbano contribuire a sanare i buchi del bilancio pubblico.

Come se, in Italia, fosse normale ledere i DIRITTI ACQUISITI da decenni di versamenti contributivi.

Come se, in Italia, fosse normale e legalmente corretto, taglieggiare le pensioni superiori a 3 volte il minimo INPS, con la scusa del buco di bilancio dell’INPS e della povertà delle casse dello Stato.

La Corte ha finto di ignorare che la legge Renzi ha restituito ai pensionati circa il 12% della cifra “rubata”(circa 2,4 miliardi di euro invece dei 24 sottratti alle tasche dei pensionati dal 2012 ad oggi). La Corte ha finto di ignorare che la legge Renzi (detta anche lodo Poletti) non rispetta – tra l’altro- i principi di proporzionalità ed adeguatezza del trattamento previdenziale (retribuzione differita, articoli 36 e 38 della Costituzione); ha finto di ignorare che il taglio pensionistico è, nei fatti, una tassa non applicata con criterio proporzionale…..etc etc.
PRIME CONCLUSIONI:
1) CDV= come volevasi dimostrare. Sentenza politica espressa da una Corte politica, in cui ha certamente pesato il parere dei 2 ultimi giudici, di nomina renziana;
2) Questa CORTE COSTITUZIONALE costituisce, ora, una ISTITUZIONE INUTILE e COSTOSA, fatta per proteggere “il palazzo” e non i cittadini comuni (ex quibus, i pensionati INPS);
3) Anche di questo dovra’ rispondere RENZI: di aver contribuito a ledere i diritti dei pensionati.
4) I pensionati sono come i veneti : paciocconi, finchè qualcuno non pesta loro i piedi. E si vota, finalmente si vota, in PRIMAVERA !
Evidentemente, i “Signori” – benpagati – della Consulta non hanno percepito il “venticello” che viene dal Veneto e dalla Lombardia….
Ad maiora !
Stefano Biasioli

 

La CONSULTA BOCCIA la PEREQUAZIONE dei TRATTAMENTI PENSIONISTICI

Ecco il testo del comunicato diffuso dall’Uff. Stampa della Corte costituzionale in data odierna

Pensioni, la Consulta boccia rivalutazione. Rimborsi solo parziali

La Corte costituzionale respinge le censure di incostutizionalità

Pubblicato il 25 ottobre 2017

Ultimo aggiornamento: 25 ottobre 2017 ore 13:21

Roma, 25 ottobre 2017 – La Corte costituzionale ha bocciato rivalutazione delle pensioni, respingendo le censure di incostituzionalità sollevate dal decreto Poletti e salvando così i conti pubblici da un buco di 16-20 miliardi di euro. All’esame della Consulta c’erano i ricorsi presentati da numerosi tribunali e sezioni giurisdizionali contro il decreto Poletti, varato nel 2015 dal governo Renzi dopo la bocciatura della norma Fornero che aveva bloccato per gli anni 2012-2013 l’adeguamento degli assegni con importo mensile di tre volte superiore al minimo Inps (circa 1.450 euro lordi). La decisione giunge con un giorno di ritardo rispetto a quello previsto.

COSA DICE IL DECRETO POLETTI – Il bonus Poletti ha previsto un rimborso solo parziale per il biennio incriminato: il 100% della restituzione spetta solo a chi ha una pensione fino a 3 volte il minimo Inps, per gli assegni da 3 a 4 volte il minimo venne stabilito il 40%, che scende al 20% per gli importi superiori di 4-5 volte, e al 10% per quelli tra 5-6 volte. Esclusi dal rimborso invece i destinatari di pensioni pari a 6 volte il minimo).

I RICORSI – Contro tale norma, erano state avviate numerose cause. Secondo le ordinanze con cui i vari giudici avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale del decreto Poletti – che è finito così al giudizio della Consulta – il decreto è in contrasto con i principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza del trattamento previdenziale, inteso come retribuzione differita, espressi dagli articoli 36 e 38 della Costituzione. In alcune ordinanze si sottolineava anche la violazione del giudicato costituzionale, in relazione alla sentenza sulla norma Fornero, e la violazione del principio di ragionevolezza. Sotto la lente c’era anche la disposizione, contenuta nella legge di stabilità 2014, che oltre ad escludere anche per l’anno 2014 la perequazione per le pensioni di importo superiore a 6 volte il valore minimo, disciplina il meccanismo di blocco della rivalutazione fino al 2016 (poi prorogato sino al 2018 dalla legge di stabilità 2016).

PENSIONE A 67 ANNI – Intanto ieri l’Istat ha aggiornato le stime sull’aspettativa di vita, che sale di 5 mesi per il totale dei residenti in Italia. A 65 anni è pari a 20 anni e 7 mesi. Si confermano quindi per quanto riguarda l’accesso alla pensione di vecchiaia le previsioni di un incremento di 5 mesi nel 2019. Il passaggio sarà da 66 anni e sette mesi a 67 anni sia per gli uomini che per le donne. La legge prevede infatti che il Governo utilizzi le stime Istat per l’adeguamento dell’età della pensione di vecchiaia e che vari un decreto ministeriale per l’adeguamento automatico.

Corte Costituzionale e mancata rivalutazione delle pensioni (24.10.17)

CORTE COSTITUZIONALE e MANCATA RIVALUTAZIONE delle PENSIONI. Sentenza scontata..?.
(articolo di Stefano Biasioli 24.10.2017)
 
Martedì 24 Ottobre la Corte Costituzionale ha iniziato la discussione sulle  migliaia di ricorsi relativi alla pluriennale mancata rivalutazione delle pensioni, come frutto delle scelte degli ultimi 4 governi (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni).
Il problema è scottante, perché una decina di Corti dei Conti Regionali ed alcuni Tribunali civili hanno rinviato il problema alla Consulta. 
Nel silenzio generale (i referendum veneti e lombardo, Anna Frank, il treno di Renzi, il rosatellum acidum…).martedì 24/10 la Consulta ha “dato l’avvio alle danze”. 
E’ toccato all’avv. Sciarra fare il riassunto delle puntate precedenti. Poi  gli avvocati dei ricorrenti  hanno ripetutamente citato le numerose sentenze della Corte sullo stesso tema (2012-2015-2016…) e la natura tributaria dei tagli pensionistici per le pensioni superiori a 2000 euro/lordi/mese. 
Hanno ricordato come la Legge Renzi (sett.2015) abbia disapplicato la sentenza 70/2015 della Consulta. Hanno ribadito che non può essere considerata ricca una pensione da 6 ad 8 volte il minimo INPS e che i “….pensionati italiani non possono essere i soli cittadini ad essere chiamati a salvare il bilancio statale…“.
L’Avvocata dell’INPS ha – come negli anni precedenti –  sacralmente affermato che l’INPS ha rispettato le sentenze della Consulta ed ha ricordato i danni provocati dalla scelta delle “pensioni baby” (Ndr??!!). L’Avvocato dello Stato ha terrorizzato i membri della Consulta ricordando alla Stessa che un Suo (“della Consulta”) parere positivo a favore dei ricorrenti  avrebbe prodotto un buco nel bilancio statale valutabile dai 15 ai 30 miliardi di euro, con sforamento del limite europeo del debito pubblico italiano  (il famoso 3%/PIL).
Nihil sub sole novi.
Chi scrive e l’intero gruppo dei pensionati raccolti nei Leonida, nel Forum pensionati e nella FEDERSPeV l’aveva ampiamente previsto. 
Si tratta dei soliti argomenti, vecchi e stantii, che hanno costretto i pensionati pubblici INPS ad essere il bancomat dei debiti pubblici, INPS e non INPS.
Nessuna certezza di ottenere, una buona volta, ragione dalla Corte Costituzionale. Oggi come ieri e come l’altro ieri.
Se il buon giorno si vede dal mattino, questo mattino era pieno di pesanti, cupe e nerastre nubi. Con tuoni e fulmini, all’orizzonte pensionistico.
Non sappiamo quando la Corte stilera’ la sentenza. Probabilmente lo farà dopo le elezioni regionali siciliane.
Restiamo in attesa. Non tanto dell’esito, che – da mesi – abbiamo pronosticato come negativo.
No. Questa volta siamo veramente curiosi di leggere e meditare le motivazioni di una nuova sentenza negativa. Come giustificheranno, questa volta, i “santi” giudici costituzionali  l’ennesimo e pluriennale esproprio pensionistico ?
Tasse, ma a carico di una sola categoria di contribuenti: quella dei pensionati e non anche  quella dei lavoratori attivi, a parità di reddito.
Da un lato, si salvano i vitalizi e si mantiene alta l’evasione fiscale, dall’altro si trasforma il pensionato in “bancomat sociale” nella prospettiva di un comunismo pensionistico. Prossimo-venturo.
Il tutto, nel silenzio piu’ assoluto di tutti i partiti dell’arco costituzionale. Dalla Meloni a Berlusconi, a Salvini, a Renzi, a Bersani, ai 5S.
Tutti zitti. Tranne Boeri, il politico mancato.
” Pensionati Europei…venite in Italia…!”, esclama ed invoca il Nostro…
Già, ma con che faccia il ricciolino  Boeri invita i pensionati del NordEuropa a vivere in Italia? Per taglieggiare anche loro, come fa con quelli italici?

Comunismo previdenziale

Noi “Pensionati Esasperati” siamo convinti che esista una ampia “fetta” di personaggi che puntano ad introdurre il COMUNISMO PREVIDENZIALE.

Il riferimento è a tutti coloro (da Gutgeld, a Maziotti e C., al Presidente dei Giovani Confindustriali….fino alla prassi dei Governi Monti-Letta Renzi-Gentiloni) che vorrebbero si arrivasse a PENSIONI UGUALI PER TUTTI.

Ad un esproprio previdenziale come quello russo del 1917

Per tutti costoro (politicanti e giornalisti) le “vecchie regole pensionistiche non valgono più…il bilancio dell’INPS è dissestato…il debito pubblico è in continua ascesa…quindi….vanno tagliate le pensioni dai 2000 euro lordi in su…”.

Non siamo pessimisti ma i personaggi citati continuano a prendersela solo con i pensionati, non con gli evasori fiscali o con i mancati tagli dei vitalizi…

C’è una sola spending review: quella che taglia le pensioni INPS alla faccia dei soldi da Noi “obbligatoriamente” versati per oltre 40 anni, soldi mai realmente rivalutati.

Insomma, TUTTI COSTORO VORREBBERO ROMPERE IL PATTO PREVIDENZIALE che lo Stato HA FATTO con ciascuno di NOI, oltre 40 anni fa.

Se così fosse, NON STAREMO FERMI e ZITTI !

SPENDING REVIEW

PER NON DIMENTICARE: diceva Gutgeld il 20/06/17….

Nel settore “Documenti” del sito troverete copia dell’intervista di Yoram Gutgeld, Commissario alla Spending Review, rilasciata al Corriere della sera il 20 giugno u.s.
In più di quattro anni di esternazioni – di Boeri, presidente INPS, di politici di vari partiti, di sindacalisti, di giornalisti, di conduttori di talk show – sulla necessità di tagliare le cosidette ” pensioni d’oro “nessuno si era, in precedenza, sbilanciato con dei numeri, preferendo tutti costoro rimanere nel vago.

Ringraziamo Gutgeld che, unico tra i molti che per anni hanno “starnazzato “sul tema, ci ha finalmente permesso di capire cosa intendono questi signori per “pensioni d’oro”.
In sintesi Gutgeld ha dichiarato che…” ..per avere un impatto significativo sulla spesa pensionistica bisognerebbe arrivare a toccare anche i diritti acquisiti delle pensioni medie da 2000-2500 euro lordi/mese, quando non sono sostenute da contributi adeguati. Li ci sono limiti oggettivi: mancano i dati sui contributi e siamo vincolati dalla Corte Costituzionale…”.
In definitiva, Gutgeld ha chiarito che, per sistemare i conti INPS, bisognerebbe agire su una ampia fetta di pensionati, partendo dalle pensioni da 2000 euro lordi/mese, ovvero da quelle con 1370 euro netti/mese !
Noi, che cattivi siamo, abbiamo capito che questa era – fin dall’inizio – la volontà del PD di Renzi: considerare “ricche” e quindi aggredibili le pensioni dai 2000 euro lordi in su. Purtroppo, dice Gutgeld, c’è qualche difficoltà a realizzare questo loro “obiettivo nascosto”…
La mancanza di documentazione in casa INPS…e la Consulta….
Adesso, anche chi non credeva al “nostro pessimismo cosmico” è servito….(Lenin!).

L’articolo citato non è più reperibile sulla rete… per questo ne teniamo copia…a memoria imperitura…. (Orsini e Biasioli)

«Rivediamo il Fiscal Compact
L’Italia non riduca il deficit»

Il commissario Yoram Gutgeld: «Non c’è più molto da aggredire, non possiamo trovare altri trenta miliardi da tagliare ma possiamo limitare la dinamica della spesa pubblica contenendo l’aumento dei costi»

di Federico Fubini, Corriere della Sera/Economia, 17 giugno 2017

Revisione non fa sempre rima con (forte) riduzione della spesa, ma con aumento degli spazi per ciò che il governo deve o vuole fare. Yoram Gutgeld, commissario alla spending review, deputato del Pd, ex consigliere economico di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ha presentato ieri il primo rapporto annuale sul suo lavoro. Lui per primo sa che ora la parte tecnica deve lasciar posto alle scelte politiche. Quanto a queste, Gutgeld ne indica due fra le sue preferenze «personali»: rinegoziare il Fiscal compact europeo per fermare il cammino verso il pareggio di bilancio, e mantenere il deficit agli attuali livelli in proporzione al prodotto lordo. Non ridurlo. Dunque per il commissario alla spending review la prossima Legge di bilancio non dovrebbe contenere la nuova stretta, per quanto limitata, che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha prefigurato in una lettera alla Commissione europea.

Commissario, includete nella revisione oltre 300 miliardi di spese ma ne escludete 500, fra cui le pensioni. Perché?

«Il governo di Mario Monti ha messo in sicurezza la dinamica della spesa pensionistica, ma la spesa rimane alta. Detto questo, mi sembra complicato intervenire ancora. Per avere un impatto, bisognerebbe arrivare a toccare i diritti acquisti delle pensioni medie da 2.000-2.500 euro lordi al mese quando non sono sostenute da contributi adeguati. Lì ci sono limiti oggettivi: mancano i dati sui contributi più antichi e siamo vincolati dalla Corte costituzionale».

Vanno coperte sempre nuove spese automatiche, come le pensioni e la sanità, o inevitabili come quelle sui migranti. Resta spazio per nuovi tagli altrove?

«Di taglio facile non è rimasto molto ma il lavoro sull’efficienza degli acquisti continuerà. Non possiamo trovare altri trenta miliardi, ma possiamo fare molto perché ci sono margini importanti. In futuro sarà fondamentale limitare la dinamica della spesa pubblica, contenendo l’aumento dei costi e vigilando sull’efficienza».

L’Italia può limitarsi a contenere la spesa e allo stesso tempo portare il bilancio verso il pareggio?

«L’obiettivo del pareggio è iscritto del Fiscal compact europeo, ma trovo che su di esso occorra una riflessione. Quell’accordo fu pensato in un momento di grande emergenza, nel 2011-2012, e non si è rivelato un successo».

Da allora in area euro si sono tagliate spese per due punti di Pil e mezzo punto di tasse. Perché non è un successo?

«Intanto perché tutti i Paesi faticano a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio, ad eccezione della Germania che ha un enorme surplus esterno. Ma soprattutto, un Paese non è un’azienda. Non può essere gestito come se lo fosse: lo Stato non deve generare “profitti” per remunerare il capitale. Dunque non c’è nulla di magico in un pareggio o in un surplus di bilancio pubblico».

Dunque lei ritiene che l’Italia dovrebbe rinegoziare il Fiscal compact?

«Il vero problema è la crescita e come ottenerla. Dobbiamo andare avanti con interventi strutturali sulla giustizia, la burocrazia sulla legge fallimentare. Ma si dovrà anche valutare la leva fiscale per stimolare la ripresa, come hanno fatto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dopo la crisi».

Dove interverrebbe?

«Guarderei per esempio i crediti d’imposta su ricerca e sviluppo. Oggi il valore aggiunto dei prodotti italiani è in media più basso di quello francese o tedesco, in parte perché non si investe abbastanza in quest’area. Allargherei il credito d’imposta. Oggi le aziende farmaceutiche vanno in Francia a fare ricerca, perché lì gli sgravi sono più alti. Anche l’ambito degli incentivi di Industria 4.0, che stanno funzionando, è ancora limitato, riguarda solo le macchine digitali: andrebbe allargato».

Sembra che lei pensi più a sgravi per le imprese che all’imposta sul reddito delle persone fisiche.

«Anche sull’Irpef si dovrebbe fare qualcosa. Serve una fiscalità orientata alla famiglia, proprio perché abbiamo un problema demografico e occorre incoraggiare la natalità. Il problema è europeo eccezion fatta per la Francia che ha una fiscalità molto più favorevole per famiglie».

Difficile fare ciò che lei dice riducendo il deficit, e presto l’Italia dovrebbe dare disco verde alla piena integrazione del Fiscal compact nel diritto europeo. Che ne pensa?

«Il governo si dovrà esprimere. Personalmente non credo sia una buona idea, perché trovo che quell’accordo sia da rivedere per avere uno spazio fiscale più ampio».

Anche con un disavanzo sopra al 3% del prodotto lordo?

«No, perché in Italia resta un problema di debito. Con un deficit sopra al 3% inizieremmo a faticare nello stabilizzare la dinamica del debito e questa per noi resta una questione fondamentale. Il problema del Fiscal compact è che si concentra solo sul deficit».

Lei invece a cosa guarderebbe?

«A deficit, crescita e inflazione. Con la regola del due. Con un due per cento di aumento del Pil in termini reali, di deficit pubblico e di aumento dei prezzi al consumo, metteremmo il debito su una traiettoria rapidamente discendente. E pian piano ci stiamo avvicinando a questi obiettivi, ma serve una spinta in più».

Il deficit nel 2017 è già diretto attorno al 2%. Significa che la prossima Legge di stabilità non dovrà stringere ancora? Padoan pensa a un aggiustamento da 5-6 miliardi…

«Più o meno siamo come dovremmo essere in questa fase. La macchina della gestione della spesa ora funziona e siamo in grado di gestire aumenti contenuti delle uscite. Il tema che richiede una valutazione politica è quello della leva fiscale. Si potrebbero ridiscutere gli obiettivi per l’anno prossimo, ma non isolatamente. Dobbiamo andare avanti anche con le altre riforme strutturali: vanno rassicurati i mercati, perché capiscano che l’Italia crescerà».

In Francia il presidente Emmanuel Macron prepara una riforma del lavoro più radicale di quella di Renzi, perché include la contrattazione in azienda. Addolcita da un balzo del deficit dal 3% al 4% nel 2018. Che ne pensa?

«I numeri francesi sono diversi, resto convinto che per noi un deficit al 3% complica la gestione del debito. Ma prendersi un po’ di spazio fiscale, come sembra farà Macron, ha senso».

L’Italia dovrebbe seguire Parigi sulla riforma del lavoro?

«Sono questioni che riguardano la contrattazione, dunque i rapporti fra datori e sindacati. Sicuramente è l’approccio giusto, in Germania c’è da tempo. Ma temo che il governo possa favorirlo solo fino a un certo punto».

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