Pavida e imponente – La Consulta ormai non serve più
Dovrebbe imporsi, invece la Corte Costituzionale è asservita ai politici. Per paura di perdere privilegi, castra le sue sentenze…..
LaVerità – pag 9 – 14.11.2017
APS-LEONIDA – Pensionati Esasperati
SALVIAMO LE PENSIONI – VIA L'ASSISTENZA DALLA PREVIDENZA !
Pavida e imponente – La Consulta ormai non serve più
Dovrebbe imporsi, invece la Corte Costituzionale è asservita ai politici. Per paura di perdere privilegi, castra le sue sentenze…..
LaVerità – pag 9 – 14.11.2017
Di Giuseppe Pennisi 13 novembre 2017 su FORMICHE.NET
RIFORMA PENSIONI.
Si usava dire “di pensioni si muore” quando nel 1958 debuttava il primo lavoro teatrale di Giuseppe Patroni Griffi, per l’appunto intitolata “D’amore si muore”. Allora solo una metà degli italiani aveva titolo a fruire di previdenza, secondo un sistema categoriale che aveva dato vita a una cinquantina di “regimi” differenti. Tutto cambiò con la “grande riforma” del 1967-68, che – disse la Cgil – dava “agli italiani il sistema previdenziale più avanzato al mondo”, tale da assicurare all’età legale della pensione un trattamento (al netto di contributi e imposte) quasi analogo all’ultimo stipendio.
Il sistema era così “avanzato”; dopo circa due anni venne insediata una Commissione (la Commissione Castellino) per rivederlo a fondo. Da allora si succedettero proposte che portarono nel 1989 alla separazione tra “assistenza” e “previdenza” nel bilancio Inps. Solo dopo la crisi finanziaria del 1992 e la caduta del primo Governo di quella che veniva chiamata la “Seconda Repubblica” si arrivò a trasformare radicalmente il sistema.
In parallelo, Svezia e Italia, pur conservando un “sistema a ripartizione” (in base al quale i lavoratori attivi mantenevano e mantengono, tramite gli assegni previdenziali, i pensionati), sono passate da un meccanismo tramite il quale le pensioni erano calcolate sulle retribuzioni (sistema retributivo) a uno tramite il quale sono computate tramite i contributi versati, debitamente aggiornati (sistema contributivo). Il sistema, chiamato National Defined Contribution (Ndc), è ora adottato da una trentina di Paesi. Sarebbe dovuto essere “definitivo”.
Invece da allora a oggi è stato “riformato” circa una quindicina di volte, spesso provocando crisi di governo. Ora “di pensioni si muore” si applica a governi e forze politiche. Ho tenuto a sintetizzare come si è giunti a questa situazione perché altrimenti è difficile comprendere il dibattito sulle pensioni nelle attuali discussioni parlamentari sulla Legge di bilancio e le possibili soluzioni “definitive”.
Le ragioni principali sono due:
1) La separazione tra previdenza e assistenza, pur se risulta chiaramente dallo studio dei bilanci Inps, è raramente trattata nel dibattito giornalistico e politico. Senza la spesa per l’assistenza (politiche sociali degnissime), ma che sono a carico delle fiscalità generale e in cui l’Inps è solo un comodo “ufficiale di pagamento” per conto dello Stato, la spesa previdenziale sarebbe sul 14% del Pil e non oltre il 18%. Questi dati confermano quanto ripetutamente affermato da vari esperti (a partire da Alberto Brambilla), e cioè che mentre le spese previdenziali “vere” sono totalmente coperte da contributi, invece, le spese assistenziali sono largamente “in rosso” perché lo Stato non le finanzia correttamente e tempestivamente. Si tratta di spese che – talora – figurano come prestiti all’Inps e non come doverosi contributi assistenziali. Cazzola ha ricordato che, nel 1998, Ciampi ha azzerato il debito che lo Stato aveva verso l’Inps, pari a circa 80 miliardi di euro attuali: il patrimonio tornò allora in attivo. Lo stesso Presidente dell’Inps Boeri ha ripetutamente sottolineato: “Si tratta di una questione contabile, le prestazioni sono garantite dallo Stato e ciò che conta non è il bilancio Inps, ma quello statale!”.
2) La “riforma definitiva” contemplava un periodo di transizione di ben 18 anni , e non di tre come in Svezia (oppure di da zero a cinque come in altri Paesi). Il periodo così lungo, richiesto dalla dirigenza sindacale, ha creato distorsioni a più non posso (“pensioni d’oro”) che si è cercato di parare con successivi aggiustamenti che hanno reso il sistema previdenziale una veste di Arlecchino, piena di toppe. Se ne chiude una e se ne apre un’altra.
A questo punto cosa fare? In breve tornare ai principi di base Ndc quali applicati in numerosi Paesi:
a) separazione netta tra assistenza e previdenza, trovando se possibile un differente canale contabile ed erogatorio per l’assistenza (tra cui primeggiano assegni sociali, assegni di invalidità, integrazioni al minino) al fine di non ingenerare confusione.
b) portare a cinque-dieci anni (come altrove) il requisito per poter fruire di una pensione statale “contributiva”, anche al fine di ridurre il fenomeno tutto italiano dei “silenti” (coloro che hanno versato contributi sino a 19 anni e 11 mesi e mezzo e non hanno titolo a previdenza)
c) eliminare il concetto stesso di “pensioni di vecchiaia” (come dopo decenni è stato eliminato quello di pensioni di anzianità): si resta al lavoro tanto quanto si può e si vuole. E chi lavora più anni avrà un trattamento previdenziale statale più pingue, mentre chi ne lavora meno ne avrà uno più modesto.
Se non si torna a questi principi sarà difficile avere un sistema previdenziale moderno ed efficiente.
© Riproduzione Riservata.
Articolo su trattativa Governo/Sindacati su pensioni.
Fonte ilsole24ore, del 07 novembre 2017
PREMESSA
Avendo fatto il medico per tutta la vita passata e presente, non sono un esperto di diritto amministrativo. Quel poco che so è legato alle regole fondamentali della P.A., con tutte le implicazioni contrattualistiche della pubblica amministrazione e della dirigenza sanitaria in particolare.
Nel mio piccolo, da sindacalista nazionale (prima per la dirigenza medica e poi per la Confederazione autonoma CONFEDIR) ho partecipato ai contratti pubblici dal 1992 fino al 2009. Non sono quindi uno sprovveduto e, da medico e dirigente pubblico, mi sono ripetutamente posto alcuni quesiti che, fino ad ora, non hanno avuto una risposta chiara.
Da mesi sentiamo il “ritornello pensionistico”:…” la riforma Fornero non va toccata, per evitare sfondamenti dei conti pensionistici e del bilancio statale”….” La riforma Fornero può essere ritoccata, consentendo un anticipo pensionistico (APE o simili) a categorie di lavoratori usurati…”. “L’APE va allargata a molti lavori usuranti includendo anche quelli oggi non valutati come tali…”
“ Vanno inclusi nell’APE anche gli infermieri, oggi esclusi (ed i medici, che passano anni della loro vita di guardia o di reperibilita’ ? NdR)”.
Insomma un balletto di posizioni “ballonzolato” da esperti-veri (Boeri, vertici della Banca d’Italia, sindacalisti confederali, Brambilla, Fornero) e da pseudo-esperti, tra cui – purtroppo- siamo costretti ad inserire Giuliano Cazzola, dopo la sua triste sceneggiata di ieri sera (Di Martedì, LA7).
I FATTI
Che il debito dello stato italiano superi i 2200 miliardi di euro, è noto. Che esso cresca continuamente e che sia cresciuto di circa 170 miliardi con gli ultimi governi (tecnici e renziani) è altrettanto noto. Che il bilancio dell’INPS sia “in rosso” e che il suo patrimonio si stia depauperando è altrettanto noto. Meno noto è – tuttavia- il dato che il BILANCIO PREVIDENZIALE INPS sia in pareggio mentre quello ASSISTENZIALE sia negativo, per insufficiente finanziamento delle attività assistenziali INPS.
Da almeno 2 anni, il presidente INPS cerca di assumere/esercitare un ruolo politico, dedicandosi non tanto alla gestione dell’istituto previdenziale piu’ importante del mondo, ma a proposte politiche sulle “politiche sociali” (e non previdenziali) diffondendo così inquietudini tra i pensionati, per la sua idea (non esplicitata ma sottointesa) di una socializzazione comunistoide delle pensioni in essere. E’ sufficiente leggere le dichiarazioni del bocconiano, negli ultimi 24 mesi, per darmi ragione.
Infine sul tema si sono pronunciate anche le altre istituzioni- Banca d’Italia e dintorni, Consulta e dintorni, UE e dintorni – sproloquiando sulla sostenibilità dei costi previdenziali e sui loro effetti sul debito pubblico.
DOMANDE da IGNORANTE
Una volta per tutte, gradiremmo allora avere risposte motivate, chiare e definitive su alcuni quesiti oggi insoluti.
Poiché il bilancio dell’INPS è “esterno” al bilancio statale, qual’è la natura giuridica dell’INPS e qual è l’autonomia reale del bilancio INPS, rispetto alle mutevoli decisioni governative?
Forse che il bilancio INPS è “esterno” al bilancio dello Stato (come quello della Cassa depositi e prestiti…) e sfugge quindi alle rigide regole U.E. sul debito italico?
Quale ruolo “in vigilando” ha la Banca d’Italia sull’INPS?
Può la Corte Costituzionale (decisione del 25/10/17) legittimamente (non politicamente) negare ai pensionati in essere la certezza dei diritti previdenziali acquisiti, consentendo da un lato il persistere di pluriennali “tasse improprie” a carico di qualche milione di pensionati e creando le premesse giuridche per un futuro previdenziale legato alla situazione annuale delle finanze pubbliche ?
Quale ORGANO COSTITUZIONALE può controllare che le innumerevoli spese assistenziali non vengano (come è ora) messe a carico dell’INPS, senza adeguato finanziamento dello Stato, come sta avvenendo almeno dal 2014 ?
La domanda non è oziosa, perchè anche il recente bilancio INPS non separa nettamente le numerose voci/spese assistenziali da quelle previdenziali e perchè lo stesso Boeri ha dichiarato al Parlamento che, oggi, le voci assistenziali INPS sono almeno il doppio di quelle previdenziali INPS. Chiedendo poi – il bocconiano- al Governo di cambiare la dizione dell’INPS da Istituto della Previdenza Sociale ad Istituto della Protezione Sociale !
Noi, che curiosi siamo, abbiamo dato l’incarico ad un magistrato amministrativo di studiare l’intera questione. Vi informeremo…
Nel frattempo, chiediamo agli ESPERTI di dare una prima risposta ai nostri quesiti. Per ISCRITTO e non con le solite “ciacole violente” a Di Martedì !
Stefano Biasioli
Past President CONFEDIR – uno dei Leonida e dei “Pensionati Esasperati”
pubblicato su formiche.net : http://formiche.net/2017/11/08/inps-boeri-previdenza/
Pensioni, Fornero: “L’età va alzata, basta mentire al Paese”
L’età pensionabile deve essere alzata, altrimenti si ingannano i cittadini. L’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, nel giorno del tavolo tra Governo e sindacati, in un’intervista a Repubblica dice la sua sull’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile. Il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno fatto bene a impedire il blocco dell’aumento dell’età pensionabile, “perché è una scelta che risponde a un’esigenza di medio periodo nell’interesse generale, e non elettorale. Si è evitato di scaricare sui giovani il costo di un’operazione che avvantaggerebbe solo le generazioni più mature“, ha detto Fornero.
“Solo dal 2012 tutte le pensioni sono pro rata calcolate con il metodo contributivo. Ci vorrà ancora una ventina d’anni perché le pensioni siano interamente contributive. Da allora in poi potranno scattare i meccanismi di flessibilità” in uscita, spiega Fornero, che dice sì all’ampliamento delle maglie dell’anticipo pensionistico sociale. “Penso che sia una buona innovazione che può permettere a categorie sfortunate di non subire l’effetto dell’indicizzazione senza mettere a repentaglio la sostenibilità del sistema previdenziale. Un intervento sociale che per la prima volta realizza la separazione tra assistenza e previdenza“.
In merito all’obiezione che lasciando i più anziani al lavoro non si liberano i posti per i giovani, “il ragionamento va capovolto: vanno create le occasioni di lavoro, anche attraverso le politiche attive per il lavoro rispetto alle quali siamo a dir poco impreparati, e non pensare che al lavoro si acceda cacciando qualcun altro“, dichiara Fornero.
Rai News 24, 06 novembre 2017
Bruxelles ha rumoreggiato sulla bozza di legge di bilancio giuntale da Roma. Peraltro, il testo, come si legge ogni giorno sui giornali e sul web, è in fase di rimaneggiamento in una direzione che potrebbe fare aumentare ulteriormente il differenziale tra entrate ed uscite. Non solo perché siamo nel mezzo di una campagna elettorale che spinge i partiti (specialmente quelli al governo che hanno la potestà di farlo) ad elargire regali e regalini elettorali. Bruxelles stima in 1,7 miliardi di euro il differenziale di deficit tra quanto concordato con Roma prima della stesura della legge ed il testo inviato alla Commissione Europea. Credo che la Commissione abbia inforcato occhiali benevoli e che tra qualche settimana il divario risulterà molto maggiore.
L’impianto della legge quale inviata a Bruxelles ed al Parlamento si basa su un rafforzamento della crescita dell’economia reale ed un aumento del Pil dell’1,5%, mentre i 20 principali istituti di analisi econometrica (tutti privati, nessuno italiano) nel loro aggiornamento non stimato un rafforzamento della crescita, ma un rallentamento del ciclo economico, le cui determinanti originano dall’Estremo Oriente e dagli Stati Uniti (e su di esse l’Europa non ha alcun controllo). Non ci siamo agganciati alla crescita quando iniziava, oggi siamo alla prese con il declino di chi ci circonda.
Per l’area dell’euro, il rallentamento sarebbe leggero (la media dei venti istituti vede uno scivolamento da una crescita del 2% nel 2017 a una dell’1,8% nel 2018). Più marcato per l’Italia, dall’1,3-1,4% nel 2017 all’1,1% nel 2018. Conversazioni informali con alcuni degli istituti suggeriscono che il prossimo aggiornamento potrebbe essere meno ottimista data la situazione in Europa. La settimana che inizia il 31 aprile gli istituti presenteranno una nuova tornata di previsione. È inconcepibile pensare che gli ‘avvenimenti’ in Catalogna non avranno effetti negativi sul resto d’Europa. Tanto più che già la Corsica ha accesso una fiaccola indipendentista. Inoltre gli esiti dei referendum in Veneto e Lombardia sono una chiara richiesta di differente ripartizione del gettito tributario ed un chiaro avvertimento di opposizione netta a nuovi aumenti della pressione tributaria e contributiva.
Se non cambia drasticamente la legge di bilancio in discussione, la manovra prevista in 19,8 miliari di euro potrebbe aumentare sino a toccare circa 30 miliardi di euro, sfiorando, in termini assoluti e senza contare gli effetti dell’inflazione, la ‘manovra Amato’ dell’estate 1992. Cifra inaccettabile per un governo che, secondo gli accordi europei, avrebbe dovuto raggiungere il pareggio strutturale di bilancio nel 2014 (in base al Fiscal Compact). Quindi, è essenziale rivedere, in pochi giorni, le poste di entrate ed uscite.
A fine 2014 il governo annunciò che quella sarebbe stata “l’ultima finanziaria”, nel senso che i conti pubblici erano ormai rimessi a posto, si poteva pensare a spese come gli “80 euro” per i bassi redditi o i 500 per i diciottenni, mentre il debito pubblico era sul retto sentiero. Mai un annuncio fu tanto miope.
Giuseppe Pennisi Formiche.net
(commento di Lenin)
Bravissimo Massimiliano FEDRIGA, nel suo intervento demolisce la riforma Fornero e ribadisce la necessità, non più rinviabile, di separare l’Assistenza dalla Previdenza . In questo modo la spesa pensionistica in Italia sarebbe molto più bassa nei confronti di altri paesi UE .
La Fornero è una “terribile riforma che noi orgogliosamente non abbiamo votato. Diciamo le cose con chiarezza non è vero che saltavano le pensioni se non si faceva la Fornero”. Il leghista Massimiliano Fedriga, ospite di Coffee Break su La7, smonta la riforma dell’ex ministro e si scontra con Matteo Colaninno del Pd: “La verità è che è arrivata una lettera della Bce quando era al governo Berlusconi che diceva che dovevamo toccare le pensioni e il centrodestra non lo ha fatto. Poi è arrivato Mario Monti e abbiamo visto il disastro che ha fatto. La Fornero va rivoluzionata, bisogna dividere la parte assistenziale da quella previdenziale. Basta dire balle“. “Non accetto il termine balle“, ribatte Colaninno, “perché sulla Fornero possiamo essere d’accordo ma quando hai quello spread e quei tassi significa che è in corso un infarto finanziario quindi sarebbe saltato tutto il sistema non solo le pensioni”.
Commento di Biasioli alle esternazioni di Cazzola a proposito della Sentenza della Consulta
“Secondo Cazzola è corretto che una legge “fasulla” bastoni ancora una volta solo i pensionati e non i cittadini attivi, a parità di reddito !
E, ciò, non solo nel 2012-2013, ma fino a tutto il 2018.
Alla faccia dell’equità….sociale e del rapporto tra pensione e contributi versati.
Evidentemente le tante Corti dei Conti regionali ed i Tribunali civili, che hanno rinviato il problema alla Consulta, sono tutti da “censurare”.
Per fortuna, la pensiamo in modo diverso.
Per fortuna esiste la CEDU, a Strasburgo.
Ed alla CEDU Noi andremo, alla faccia di Cazzola e di chi, come Lui, non pensa che i tagli pensionistici abbiano natura tributaria.
Alla faccia di chi continua a salvare i vitalizi e non vuole separare l’assistenza dalla previdenza.
Alla faccia di chi (Consulta) vara una sentenza politica e non tecnica.
Politica, fuoriuscita da afflati di giudici di nomina politica e non da costituzionalisti seri.
Già, anche Noi attendiamo il testo “esteso” della sentenza e ne commenteremo gli equilibrismi.
Forse che tocca solo ai pensionati salvare il bilancio dello Stato?
A quelli come Cazzola, no…non tocca. Perchè? “
Stefano Biasioli – Presidente FEDERSPeV di Vicenza.
Articolo di Cazzola a proposito della Sentenza della Consulta (Formiche.net del 30.10.17)
Non condivido le valutazioni critiche (alcune delle quali ospitate anche da Formiche.net) sulla sentenza del 25 ottobre scorso con la quale la Consulta ha riconosciuto la legittimità (e la ragionevolezza) del dl n.65/2015 con cui il governo Renzi provvide a dare applicazione alla sentenza n.30 dello stesso anno, in materia di rivalutazione automatica delle pensioni la cui dinamica era stata bloccata (comma 25 dell’articolo 24 del decreto Salva Italia varato dal governo Monti alla fine del 2011) per i trattamenti superiori a tre volte il minimo (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013). Credo che i giudici delle leggi non avrebbero potuto esprimersi diversamente. E non solo – come si dice – per evitare lo sfascio dei conti pubblici caricandoli di un esborso insostenibile (si parla di alcune decine di miliardi) che – come prima cosa – avrebbe determinato l’impossibilità nella legge di bilancio di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Ma la sentenza, a mio avviso, non fa una grinza anche sul piano giuridico (ovviamente questa opinione rimane in attesa di una lettura approfondita della motivazione).
La Corte, con la sentenza n.30, non aveva sollevato una questione di illegittimità del comma 25 nel suo complesso, ma soltanto nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento». In sostanza il Collegio si era espresso sulla congruità della misura in rapporto alla necessità di garantire l’adeguatezza delle prestazioni come prevede l’articolo 38 della Carta Costituzionale.
Il governo Renzi con il dl n.65 aveva ampliato la platea dei soggetti tutelati, elevando, sia pure con rimborsi di carattere parziale, il limite della salvaguardia a sei volte l’importo del minimo. Il che ha significato che, nell’insieme, ad almeno 12 milioni dei 16 milioni di pensionati, era stata riconosciuta una tutela totale o parziale in relazione alla rivalutazione automatica al costo della vita. I giudici delle leggi – che avevano ribadito, come in casi precedenti, la legittimità dell’intervento del legislatore in questa materia (tanto da respingere, in sede di esame del comma 25, un ricorso che chiedeva la cassazione integrale della norma) non potevano mettersi a contrattare con il Governo sui criteri dell’adeguatezza. Già la sentenza n.30 del 2015 presentava dei profili discutibili. Insistere su quella impostazione avrebbe significato un’invadenza nei poteri spettanti al governo e al Parlamento.
Ci sono Paesi, come il Portogallo, dove chi trasferisce la residenza viene esentato da qualunque imposta sulla pensione per 10 anni.
Queste agevolazioni fiscali, studiate per incentivare l’accoglienza di nuovi residenti affinché rechino un aumento della domanda interna, a beneficio dell’economia del Paese, sono possibili in virtù d quanto prevedono le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, in vigore tra gli Stati.
Queste convenzioni seguono lo schema-tipo dell’OCSE che, all’art. 18, prevede che la tassazione sulla pensione avvenga da parte dello Stato di residenza (dove il pensionato ha o trasferisce la residenza) e non di quello che eroga la pensione.
C’è un’eccezione: resta salvo il caso dei pensionati “pubblici”, cioè delle pensioni pagate da pubbliche amministrazioni, nel qual caso la tassazione avviene, in ogni caso, da parte dello Stato che eroga la pensione.
Circa questo discrimine, il commentario Ocse al modello-tipo spiega che si tratta di una previsione risalente e condivisa, parte integrante del diritto internazionale pattizio, che ha come ratio quella della “cortesia internazionali” tra gli Stati… insomma ogni Stato mantiene il diritto di tassare i propri funzionari pubblici.
Ciò spiega il diverso trattamento fiscalmente riservato ai pensionati “INPS privati” ed ai pensionati “ex INPDAP” (come, ad esempio, gli ex insegnanti) che decidano di trasferire la residenza all’estero.
Se questi ultimi non assumono anche la cittadinanza estera, non hanno convenienza, dal punto fiscale, a trasferire la residenza in Portogallo, oppure alle isole Canarie o in qualche altro “paradiso fiscale”.
Eccezione all’eccezione, peraltro, è costituita dalla Tunisia, in quanto la convenzione bilaterale tra lo Stato italiano e quello tunisino non prevede questo discrimine.
Evidente è la ragione che spinge i nostri concittadini pensionati a far le valigie.
Su di essi grava un’IRPEF del 23% nel caso in cui il reddito medio annuo lordo superi gli 8.174 euro, che salgono al 27%, poi al 38%, poi al 41% ed infine al 43%, secondo scaglioni di reddito crescenti.
E poi ci sono le imposte indirette, le tasse comunali, i ticket sanitari, etc.
Si spiega, allora, il fenomeno dell’esodo verso l’estero da parte dei numerosi pensionati italiani titolari di trattamenti modesti, verso paesi come Portogallo, Spagna, Tunisia, Bulgaria e Romania, tanto per citarne alcuni, dove pur con pensioni di circa 1000 euro – a differenza che qui – si riesce a vivere dignitosamente, perché la tassazione è inferiore (salvo il caso, come si è detto, dei pensionati pubblici, con l’eccezione della Tunisia) e naturalmente perché il costo della vita è anch’esso inferiore.