Lettera da Bruxelles
di Nicolò Rinaldi
Nella nostra Lettera del 28 aprile scorso si scrisse del certificato verde e si passò in rassegna i settori che durante la pandemia l’Europa ha affrontato con azioni comuni e quelli dove invece è andata in ordine sparso. L’adozione del Certificato Verde appartiene alla prima categoria in quanto strumento comune e da tutti riconosciuto, ma alla seconda in quanto a modo d’uso. All’indomani di una generalizzata applicazione in Italia, occorre rilevare che il famigerato e divisivo “green pass” viene maneggiato in modo molto diverso da ciascun paese. Indispensabile per lavorare e studiare in Italia, richiesto solo per viaggiare all’estero e per affollati eventi in altri paesi, e ogni genere di via di mezzo in altri. Basta un colpo d’occhio a una tabella comparativa sulle attività per le quali è richiesto in Italia e altrove, per capire che il certificato verde è molto poco “comune” e ha un significato assai diverso nei ventisette paesi dell’Ue.
Il risultato è che quella “Europa della Sanità”, invocata da oltre un anno, non c’è. Ed è difficile plasmarla tanto più distanti sono le scelte di fondo praticate dai paesi europei rispetto all’attuale fase della pandemia.
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