di Stefano Biasioli – domenica 3 maggio 2020
Con un sospiro di sollievo abbiamo letto stamattina un primo STUDIO CLINICO affidabile (pur se preliminare) sul COVID-19.
Lo aspettavamo, Noi medici ospedalieri “pratici e praticoni”, dopo tanti bla-bla, in Italia, di epidemiologi e di membri di task-force imbarazzanti.
Imbarazzanti per gli scenari catastrofici immaginati e per gli errori matematici previsionali, pensati e diffusi come se gli italiani fossero un popolo di imbecilli, sprovveduti, incapaci di rispettare le regole protettive elementari (mascherine, guanti, disinfezione delle mani) e come se non avessero dimostrato di attenersi alle regole della “clausura”.
Finalmente, uno studio clinico sui pazienti COVID ospedalizzati, realizzato da un consorzio di ricercatori, denominato ISARIC4C, che ha coinvolto l’Università di Edimburgo e l’Imperial College di Londra, ed è stato coordinato dai Prof. Derek Hill (London College) e Peter Openshaw (ICL).
Uno studio prospettico-osservazionale strutturato per cercare di acquisire informazioni sull’esito clinico dei pazienti Covid più gravi, ossia di quelli che finiscono in ospedale. E basato su un questionario (approvato dalla WHO), poi utilizzato in 166 ospedali inglesi, dal 6 Febbraio al 18 Aprile 2020 .
Lo studio ha coinvolto 16.749 pazienti, con età media di 72 anni.
Quali i risultati ? Li elenchiamo brevemente:
- Tra i pazienti OSPEDALIZZATI , il 33% è morto, il 49% è guarito e il 17% era ancora in ospedale (a fine aprile).
- Il destino del 17% dei pazienti, ossia di quelli PIÙ GRAVI, arrivati in T.I. (terapia intensiva) o sub-intensiva, è stato il seguente: morti=45%; guariti=31%; ancora in cura=24%.
- Drammatico l’esito dei pazienti sottoposti a VENTILAZIONE MECCANICA: 53% deceduto, 20% guarito; 27% ancora ospedalizzato.
COMMENTO: i pazienti più gravi (ospedalizzati, ventilati, in terapia intensiva o sub-intensiva) hanno una mortalità per COVID-19 più elevata della media generale. Constatazione prevedibile, ma che rafforza l’approccio veneto di trattare i pazienti precocemente, sia a domicilio che all’ingresso dell’ospedale, per evitare sia la ventilazione meccanica che l’accesso alle T.I….
Lo studio ha altresì chiarito altri aspetti, altrettanto importanti.
- Gli uomini sono più colpiti delle donne (60,2% verso 39,8%), in un rapporto 1,51:1;
- Pochissimi pazienti under-18 sono stati ospedalizzati (2%);
- Le gravide rappresentavano il 6% del totale;
- L’invecchiamento costituisce un forte predittore di mortalità (dato già noto…);
- L’obesità è un elemento significativo per la mortalità ospedaliera.
Anche questo dato era già noto, essendo stato identificato anche nella pandemia influenzale del 2009 (A/H1N1) ma non nella MERS-CoV (sindrome respiratoria da Covid del 2016, nel medio-oriente). Ipotesi? Gli obesi possono avere una meccanica respiratoria alterata e un importante stato infiammatorio legato al tessuto adiposo.
COMORBIDITÀ. Nello studio, il 53% dei pazienti aveva una o più comorbidità: oltre all’obesità, cardiopatia cronica (29%); diabete controllato (19%); pneumopatia cronica non asmatica (19%); asma(14%).
Ovviamente, il 47% dei pazienti non aveva comorbidità.
Altri studi, su piccole casistiche, avevano identificato tra le comorbidità anche l’ipertensione, uno stato canceroso e l’ insufficienza renale (NdR).
Negli 11.326 pazienti, erano presenti tosse (70%), febbre (69%), respiro corto (65%), stanchezza, confusione mentale.
In definitiva il quadro clinico poteva essere RESPIRATORIO(tosse, espettorazione-sputo, dolori alla gola, gocciolio nasale, dispnea e dolore toracico), SISTEMICO(febbre, mialgie, artralgie, stanchezza) o GASTRO-INTESTINALE(dolore addominale, vomito, diarrea).
CONCLUSIONI (peraltro soggettive)
Questo studio – pur preliminare- fornisce importanti informazioni sia ai clinici che agli “strateghi” dei percorsi organizzativi, in tempo di COVID-19.
Fondamentale si conferma la scelta di tenere a domicilio (e trattare precocemente) i pazienti con sintomatologia più leggera. Nei casi più impegnativi, invece, il ricovero ospedaliero dovrebbe essere prevalentemente indirizzato verso i reparti di malattie infettive o di terapia sub-intensiva, usando tutto l’armamentario terapeutico finora dimostratosi utile, in attesa del vaccino o di un cocktail farmacologico “codificato”.
Usando cioè quello che è stato usato, empiricamente, finora: idrossiclorochina, remsdesivir, cortisonici, eparina a basso peso molecolare, plasma dei guariti, plasmaferesi o tecniche di assorbimento della IL-6 etc.
In ogni caso, la terapia va personalizzata ossia adeguata al singolo caso clinico, per cercare di guarire il paziente, evitandogli danni aggiuntivi.
Una regola, questa, valida dai tempi di Esculapio e di Anthea.
Stefano Biasioli
Primario Nefrologo in pensione