NEWS dalla Professoressa… – 06.11.17

Pensioni, Fornero: “L’età va alzata, basta mentire al Paese”

L’età pensionabile deve essere alzata, altrimenti si ingannano i cittadini. L’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, nel giorno del tavolo tra Governo e sindacati, in un’intervista a Repubblica dice la sua sull’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile. Il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno fatto bene a impedire il blocco dell’aumento dell’età pensionabile, “perché è una scelta che risponde a un’esigenza di medio periodo nell’interesse generale, e non elettorale. Si è evitato di scaricare sui giovani il costo di un’operazione che avvantaggerebbe solo le generazioni più mature“, ha detto Fornero.

Solo dal 2012 tutte le pensioni sono pro rata calcolate con il metodo contributivo. Ci vorrà ancora una ventina d’anni perché le pensioni siano interamente contributive. Da allora in poi potranno scattare i meccanismi di flessibilità” in uscita, spiega Fornero, che dice sì all’ampliamento delle maglie dell’anticipo pensionistico sociale. “Penso che sia una buona innovazione che può permettere a categorie sfortunate di non subire l’effetto dell’indicizzazione senza mettere a repentaglio la sostenibilità del sistema previdenziale. Un intervento sociale che per la prima volta realizza la separazione tra assistenza e previdenza“.

In merito all’obiezione che lasciando i più anziani al lavoro non si liberano i posti per i giovani, “il ragionamento va capovolto: vanno create le occasioni di lavoro, anche attraverso le politiche attive per il lavoro rispetto alle quali siamo a dir poco impreparati, e non pensare che al lavoro si acceda cacciando qualcun altro“, dichiara Fornero.

Rai News 24, 06 novembre 2017

Legge di bilancio, i conti dell’Italia e quelli di Bruxelles 28.10.2017

Bruxelles ha rumoreggiato sulla bozza di legge di bilancio giuntale da Roma. Peraltro, il testo, come si legge ogni giorno sui giornali e sul web, è in fase di rimaneggiamento in una direzione che potrebbe fare aumentare ulteriormente il differenziale tra entrate ed uscite. Non solo perché siamo nel mezzo di una campagna elettorale che spinge i partiti (specialmente quelli al governo che hanno la potestà di farlo) ad elargire regali e regalini elettorali. Bruxelles stima in 1,7 miliardi di euro il differenziale di deficit tra quanto concordato con Roma prima della stesura della legge ed il testo inviato alla Commissione Europea. Credo che la Commissione abbia inforcato occhiali benevoli e che tra qualche settimana il divario risulterà molto maggiore.

L’impianto della legge quale inviata a Bruxelles ed al Parlamento si basa su un rafforzamento della crescita dell’economia reale ed un aumento del Pil dell’1,5%, mentre i 20 principali istituti di analisi econometrica (tutti privati, nessuno italiano) nel loro aggiornamento non stimato un rafforzamento della crescita, ma un rallentamento del ciclo economico, le cui determinanti originano dall’Estremo Oriente e dagli Stati Uniti (e su di esse l’Europa non ha alcun controllo). Non ci siamo agganciati alla crescita quando iniziava, oggi siamo alla prese con il declino di chi ci circonda.

Per l’area dell’euro, il rallentamento sarebbe leggero (la media dei venti istituti vede uno scivolamento da una crescita del 2% nel 2017 a una dell’1,8% nel 2018). Più marcato per l’Italia, dall’1,3-1,4% nel 2017 all’1,1% nel 2018. Conversazioni informali con alcuni degli istituti suggeriscono che il prossimo aggiornamento potrebbe essere meno ottimista data la situazione in Europa. La settimana che inizia il 31 aprile gli istituti presenteranno una nuova tornata di previsione. È inconcepibile pensare che gli ‘avvenimenti’ in Catalogna non avranno effetti negativi sul resto d’Europa. Tanto più che già la Corsica ha accesso una fiaccola indipendentista. Inoltre gli esiti dei referendum in Veneto e Lombardia sono una chiara richiesta di differente ripartizione del gettito tributario ed un chiaro avvertimento di opposizione netta a nuovi aumenti della pressione tributaria e contributiva.

Se non cambia drasticamente la legge di bilancio in discussione, la manovra prevista in 19,8 miliari di euro potrebbe aumentare sino a toccare circa 30 miliardi di euro, sfiorando, in termini assoluti e senza contare gli effetti dell’inflazione, la ‘manovra Amato’ dell’estate 1992. Cifra inaccettabile per un governo che, secondo gli accordi europei, avrebbe dovuto raggiungere il pareggio strutturale di bilancio nel 2014 (in base al Fiscal Compact). Quindi, è essenziale rivedere, in pochi giorni, le poste di entrate ed uscite.

A fine 2014 il governo annunciò che quella sarebbe stata “l’ultima finanziaria”, nel senso che i conti pubblici erano ormai rimessi a posto, si poteva pensare a spese come gli “80 euro” per i bassi redditi o i 500 per i diciottenni, mentre il debito pubblico era sul retto sentiero. Mai un annuncio fu tanto miope.

Giuseppe Pennisi Formiche.net

Fedriga: “……Separare l’ASSISTENZA dalla PREVIDENZA! (Coffe break, LA7, del 02.11.2017

(commento di Lenin)

Bravissimo  Massimiliano FEDRIGA, nel suo intervento demolisce la riforma Fornero e ribadisce la necessità, non più rinviabile, di separare l’Assistenza dalla Previdenza . In questo modo la spesa pensionistica in Italia  sarebbe molto più bassa nei confronti di altri paesi UE . 

Massimiliano Fedriga contro Colaninno: “Non raccontiamo balle, la Riforma Fornero è terribile”

La Fornero è una “terribile riforma che noi orgogliosamente non abbiamo votato. Diciamo le cose con chiarezza non è vero che saltavano le pensioni se non si faceva la Fornero”. Il leghista Massimiliano Fedriga, ospite di Coffee Break su La7, smonta la riforma dell’ex ministro e si scontra con Matteo Colaninno del Pd: “La verità è che è arrivata una lettera della Bce quando era al governo Berlusconi che diceva che dovevamo toccare le pensioni e il centrodestra non lo ha fatto. Poi è arrivato Mario Monti e abbiamo visto il disastro che ha fatto. La Fornero va rivoluzionata, bisogna dividere la parte assistenziale da quella previdenziale. Basta dire balle“. “Non accetto il termine balle“, ribatte Colaninno, “perché sulla Fornero possiamo essere d’accordo ma quando hai quello spread e quei tassi significa che è in corso un infarto finanziario quindi sarebbe saltato tutto il sistema non solo le pensioni”.

“Cazzola”… e la “Consulta”… 31.10.2017

Commento di Biasioli alle esternazioni di Cazzola a proposito della Sentenza della Consulta

“Secondo Cazzola è corretto che una legge “fasulla” bastoni ancora una volta solo i pensionati e non i cittadini attivi, a parità di reddito !
E, ciò, non solo nel 2012-2013, ma fino a tutto il 2018.
Alla faccia dell’equità….sociale e del rapporto tra pensione e contributi versati.
Evidentemente le tante Corti dei Conti regionali ed i Tribunali civili, che hanno rinviato il problema alla Consulta, sono tutti da “censurare”.
Per fortuna, la pensiamo in modo diverso.
Per fortuna esiste la CEDU, a Strasburgo.
Ed alla CEDU Noi andremo, alla faccia di Cazzola e di chi, come Lui, non pensa che i tagli pensionistici abbiano natura tributaria.
Alla faccia di chi continua a salvare i vitalizi e non vuole separare l’assistenza dalla previdenza.
Alla faccia di chi (Consulta) vara una sentenza politica e non tecnica.
Politica, fuoriuscita da afflati di giudici di nomina politica e non da costituzionalisti seri.
Già, anche Noi attendiamo il testo “esteso” della sentenza e ne commenteremo gli equilibrismi.
Forse che tocca solo ai pensionati salvare il bilancio dello Stato?
A quelli come Cazzola, no…non tocca. Perchè? “

Stefano Biasioli – Presidente FEDERSPeV di Vicenza.

 

Articolo di Cazzola a proposito della Sentenza della Consulta (Formiche.net del 30.10.17)

Non condivido le valutazioni critiche (alcune delle quali ospitate anche da Formiche.net) sulla sentenza del 25 ottobre scorso con la quale la Consulta  ha riconosciuto la legittimità (e la ragionevolezza)  del dl n.65/2015 con cui il governo Renzi  provvide a dare applicazione alla sentenza n.30 dello stesso anno, in materia di rivalutazione automatica delle pensioni la cui dinamica era stata bloccata (comma 25 dell’articolo 24 del decreto Salva Italia varato dal governo Monti alla fine del 2011) per i trattamenti superiori a tre volte il minimo (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013).  Credo che i giudici delle leggi non avrebbero potuto esprimersi diversamente. E non solo – come si dice – per evitare lo sfascio dei conti pubblici caricandoli di un esborso insostenibile (si parla di alcune decine di miliardi) che – come prima cosa – avrebbe determinato l’impossibilità nella legge di bilancio di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Ma la sentenza, a mio avviso, non fa una grinza anche sul piano giuridico (ovviamente questa opinione rimane in attesa di una lettura approfondita della motivazione).

La Corte, con la sentenza n.30, non aveva sollevato una questione di illegittimità del comma 25 nel suo complesso, ma soltanto nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento». In sostanza il Collegio si era espresso sulla congruità della misura in rapporto alla necessità di garantire l’adeguatezza delle prestazioni come prevede l’articolo 38 della Carta Costituzionale.

Il governo Renzi con il dl n.65 aveva ampliato la platea dei soggetti tutelati, elevando, sia pure con rimborsi di carattere parziale, il limite della salvaguardia a sei volte l’importo del minimo. Il che ha significato che, nell’insieme, ad almeno 12 milioni dei 16 milioni di pensionati, era stata riconosciuta una tutela totale o parziale in relazione alla rivalutazione automatica al costo della vita. I giudici delle leggi – che avevano ribadito, come in casi precedenti, la legittimità dell’intervento del legislatore in questa materia  (tanto da respingere, in sede di esame del comma 25,  un ricorso che chiedeva la cassazione integrale della norma) non potevano mettersi a contrattare con il Governo sui criteri dell’adeguatezza. Già la sentenza n.30 del 2015 presentava dei profili discutibili. Insistere su quella impostazione avrebbe significato un’invadenza nei poteri spettanti al governo e al Parlamento.

 

L’esodo dei pensionati italiani all’estero 30.10.2017

Ci sono Paesi, come il Portogallo, dove chi trasferisce la residenza viene esentato da qualunque imposta sulla pensione per 10 anni.

Queste agevolazioni fiscali, studiate per incentivare l’accoglienza di nuovi residenti affinché rechino un aumento della domanda interna, a beneficio dell’economia del Paese, sono possibili in virtù d quanto prevedono le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, in vigore tra gli Stati.

Queste convenzioni seguono lo schema-tipo dell’OCSE che, all’art. 18, prevede che la tassazione sulla pensione avvenga da parte dello Stato di residenza (dove il pensionato ha o trasferisce la residenza) e non di quello che eroga la pensione.

C’è un’eccezione: resta salvo il caso dei pensionati “pubblici”, cioè delle pensioni pagate da pubbliche amministrazioni, nel qual caso la tassazione avviene, in ogni caso, da parte dello Stato che eroga la pensione.

Circa questo discrimine, il commentario Ocse al modello-tipo spiega che si tratta di una previsione risalente e condivisa, parte integrante del diritto internazionale pattizio, che ha come ratio quella della “cortesia internazionali” tra gli Stati… insomma ogni Stato mantiene il diritto di tassare i propri funzionari pubblici.

Ciò spiega il diverso trattamento fiscalmente riservato ai pensionati “INPS privati” ed ai pensionati “ex INPDAP” (come, ad esempio, gli ex insegnanti) che decidano di trasferire la residenza all’estero.

Se questi ultimi non assumono anche la cittadinanza estera, non hanno convenienza, dal punto fiscale, a trasferire la residenza in Portogallo, oppure alle isole Canarie o in qualche altro “paradiso fiscale”.

Eccezione all’eccezione, peraltro, è costituita dalla Tunisia, in quanto la convenzione bilaterale tra lo Stato italiano e quello tunisino non prevede questo discrimine.

Evidente è la ragione che spinge i nostri concittadini pensionati a far le valigie.

Su di essi grava un’IRPEF del 23% nel caso in cui il reddito medio annuo lordo superi gli 8.174 euro, che salgono al 27%, poi al 38%, poi al 41% ed infine al 43%, secondo scaglioni di reddito crescenti.

E poi ci sono le imposte indirette, le tasse comunali, i ticket sanitari, etc.

Si spiega, allora, il fenomeno dell’esodo verso l’estero da parte dei numerosi pensionati italiani titolari di trattamenti modesti, verso paesi come Portogallo, Spagna, Tunisia, Bulgaria e Romania, tanto per citarne alcuni, dove pur con pensioni di circa 1000 euro – a differenza che qui – si riesce a vivere dignitosamente, perché la tassazione è inferiore (salvo il caso, come si è detto, dei pensionati pubblici, con l’eccezione della Tunisia) e naturalmente perché il costo della vita è anch’esso inferiore.

 

 

Il paradosso di Boeri: importare pensionati dal nord Europa 29.10.2017

C’è il paradosso di Zenone (“Achille e la tartaruga”), il paradosso di Epimenide di Creta (o “del mentitore”) il paradosso di Russel (o “del barbiere”) ed ora – ma non sarà ricordato nei libri di storia e tantomeno in quelli di matematica o di logica – quello di Boeri.

In cosa consiste?

L’idea del presidente dell’INPS Tito Boeri è quella di attirare in Italia pensionati dall’estero: un piano da attuare l’anno prossimo per invogliare i pensionati stranieri, specie quelli dei Paesi nordici, a stabilirsi nel nostro solatio Paese.

La notizia è stata diffusa da alcuni organi di informazione in questi giorni (Corriere della sera del 22.10; Investireoggi.it del 23.10, ed altri).

Boeri avrebbe detto: “Penso a qualcosa da costruire con i nostri Comuni delle zone interne. Creare delle senior house con una buona copertura di servizi medici per accogliere i nuovi arrivati”.

Alla domanda se questa proposta non presupponga degli incentivi fiscali, Boeri avrebbe risposto “Si può vedere, magari validi solo per tre anni. Se ci organizziamo possiamo essere competitivi”.

L’idea di “importare” pensionati, in realtà, non è nuova.

L’ex sottosegretario del MEF Enrico Zanetti l’aveva già avanzata (senza esito) in un emendamento alla manovra finanziaria di primavera, approvata con la legge 21.6.2017, n. 96, di conversione del D.L. 24.4.2017, n. 50.

L’emendamento del leader di Scelta Civica prevedeva una tassazione fissa del 10%, per 15 anni, a favore dei pensionati di Stati esteri che trasferissero la residenza in Italia.

In pratica, si voleva far diventare il nostro Paese un paradiso fiscale per i pensionati esteri.

Così, nelle intenzioni, si sarebbe aumentata la domanda interna di beni e servizi, nonché le entrate fiscali, con giovamento per l’economia italiana.

Si tratterebbe di imitare altri Paesi che già lo stanno facendo, come il Portogallo, dove chi trasferisce la residenza viene esentato da qualunque imposta sulla pensione per 10 anni.

Si approfitterebbe, in sostanza, di quanto prevedono al riguardo le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, in vigore tra lo Stato italiano e gli altri Stati.

Queste convenzioni seguono lo schema-tipo dell’OCSE che, all’art. 18, prevede che la tassazione sulla pensione avvenga da parte dello Stato di residenza (dove il pensionato ha o trasferisce la residenza).

Il presidente dell’INPS non propone solo l’accoglienza, agevolata fiscalmente, dei pensionati esteri, come nella proposta Zanetti, ma si spinge a visionarie e stravaganti idee urbanistiche di accoglienza in Comuni delle zone interne (per ripopolare borghi e paesi in declino demografico?), di realizzazione di “senior house” (ma chi pagherà queste strutture?) ), con una buona copertura di servizi medici (dove sta allora la convenienza economica del progetto?).

Viene da chiedersi: che c’azzecca Boeri a fare queste proposte?

Essendo presidente dell’INPS, non dovrebbe invece occuparsi dei pensionati italiani, anziché di quelli stranieri?

Di questi ultimi si occuperà, se del caso, lo Stato che eroga la loro pensione.

Che c’entra l’INPS?

Che titolo ha Boeri ad occuparsi della defiscalizzazione dei pensionati stranieri e della loro accoglienza agevolata nel nostro Paese?

Non dovrebbe, invece – qui sta il paradosso – pensare ai NOSTRI pensionati che emigrano, spinti dal disagio economico di basse pensioni e di elevata tassazione, e fare proposte intese a frenare questo esodo ed a far tornare quelli che già sono fuggiti all’estero?

Lorenzo Stevanato, ex magistrato amministrativo

ARTICOLO di POERIO e SIZIA sulla SENTENZA della CONSULTA – 28.10.2017

Vilipendio della Costituzione della Repubblica

La Corte costituzionale in “confusione di ruoli” rispetto a Governo e Parlamento

Per giudicare una sentenza (ci riferiamo alla sentenza 25/10/2017 della Consulta) bisognerebbe attendere il relativo dispositivo, confrontarlo con quello della precedente sentenza 70/2015 su analoga materia, e poi giudicare e commentare secondo logica, serenità, fedeltà rispetto ai principi e valori contenuti nella Costituzione vigente.

Tuttavia il comunicato stampa della Corte (datato 25/10/2017) esige un commento immediato, visti i contenuti sfacciati, fuorvianti ed ipocriti in esso contenuti.

Primo aspetto: afferma il comunicato che la Corte costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del decreto legge n. 65 del 2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha inteso “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015”.

La Corte, evidentemente, mostra di credere al “fine dichiarato” dal legislatore nelle premesse del decreto (cioè dare attuazione alla sentenza 70/2015), anziché valutare, nel merito, le disposizioni di legge in ottemperanza ed attuazione di un preciso giudicato costituzionale (direttamente ed immediatamente applicativo), sentenza pertanto che risulta platealmente disattesa.

Infatti il d.l. 65/2015 (convertito poi in legge 109/2015), anziché prendere atto dell’art. 136 della Costituzione, secondo cui “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma (ndr: nella fattispecie l’art. 24, c. 25, della legge Fornero 214/2011, che limitava la perequazione, nel biennio 2012 e 2013, solo nei confronti delle pensioni lorde di importo  fino a 3 volte il minimo INPS) cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, facendo così rivivere i criteri di indicizzazione delle pensioni preesistenti rispetto alla legge Fornero, cioè quelli della legge 388/2000 (rivalutazione al 100% fino a 3 volte il minimo INPS; al 90% tra 3 e 5 volte il minimo; al 75% oltre le 5 volte), ha invece “preso a prestito” i criteri peggiorativi di cui alla legge Letta (L. 147/2013), aventi efficacia nel triennio 2014-2016, poi prorogati per un nuovo biennio (fino al 31/12/2018) dal Governi Renzi (L. 208/2015).

Infatti la legge Letta peggiora i criteri di perequazione, ampliando da 3 a 5 le fasce economiche di riferimento, riducendo le percentuali di rivalutazione delle pensioni oltre 4 volte il minimo INPS e non discrimina più l’indice di rivalutazione a scaglioni, cioè in modo decrescente tra le fasce di diverso e maggiore importo delle pensioni, ma tra valore complessivo della pensione stessa, penalizzando così quelle di importo medio-alto.

Ma anche accettando la “disinvoltura irrituale” della efficacia retroattiva di una legge successiva (come risultano essere sia la legge 147/2013, sia la legge 109/2015, rispetto al biennio 2012 e2013), il decreto Poletti-Renzi, anche laddove mostra di dare attuazione, parziale e tardiva, ai principi della sentenza 70/2015, incorre nei seguenti abusi:

1) rispetto alle variazioni ISTAT certificate nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo INPS è stato riconosciuto a titolo di perequazione solo il 40% (rispetto al 95% della legge 147/2013); ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo INPS solo il 20% (anziché il 75%); ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo INPS solo il 10% (anziché il 50%, sempre ai sensi della legge 147/2013); 

2) nessuna indicizzazione è stata riconosciuta, per il biennio 2012-2013, ai percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, confermando così pienamente, per questo aspetto, l’illegittimità costutuzionale dell’art 24, c. 25, della legge 214/2011 (già sancita dalla sentenza 70/2015 della Corte, che non fa alcun “distinguo” circa l’applicabilità dei principi costituzionali, come richiamati e ribaditi, per i diversi importi delle pensioni in godimento), a fronte di una piena e confermata indicizzazione  del 100% solo per le pensioni fino a 3 volte il minimo INPS;

 3) il decreto 65/2015, nato per sostituire una norma illegittima, dichiarata incostituzionale ed avente in origine efficacia biennale, non si limita ad avere un effetto retroattivo sul biennio 2012-2013, ma ha addirittura una efficacia procrastinata nel tempo, infatti incide sul “trascinamento” degli adeguamenti parziali e tardivi concessi ai percettori di pensioni tra 3 e 6 volte il minimo INPS, che vengono infatti raffreddati e contingentati, nel 2014 e 2015 (al fine dei successivi incrementi) al 20% dei miglioramenti perequativi già concessi nel biennio precedente (con abbattimento quindi dell’80%) ed al 50% (con abbattimento percentuale quindi di pari importo) dal 2016 e per gli anni successivi. Insomma non si era mai visto, in materia di indicizzazione, un “go and stop” di questo tipo, con il paradosso che solo i pensionati tra 3 e 6 volte il minimo INPS hanno avuto un riconoscimento, a titolo di perequazione, negli anni 2016 e 2017, quando tutti gli altri pensionati non hanno avuto benefici in ragione del fatto che il tasso di svalutazione e rivalutazione è stato riconosciuto, per entrambi gli anni, in misura dello 0%. L’anomalia anzidetta è dipesa solo dai “pasticci” del duo Renzi-Poletti, che hanno calpestato grossolanamente la sentenza 70/2015, finendo per restituire ai pensionati circa il 10% di quanto loro maltolto nel biennio 2012-2013; 4) non una parola, infine, è stata spesa, nella legge 109/2015, su interessi e rivalutazione, pur dovuti sulle somme percepite in ritardo (dal 2015 in poi, anziché nel 2012 e 2013) dai pensionati in questione.

Secondo aspetto: afferma il comunicato stampa che la Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del Salva Italia annullate nel 2015 con tale sentenza (ndr: la n. 70/2015) – ” la nuova e temporanea disciplina realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze di finanza pubblica”.

A tal proposito, per amor del vero, occorre chiarire:

–          che la disciplina di cui al d.l. 65/2015 non è “nuova”, certamente per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS, infatti è esattamente rimasta quella vecchia ed illegittima della legge Fornero, censurata dalla sentenza 70/2015;

–          e neppure può definirsi “temporanea”, infatti gli effetti penalizzanti dei provvedimenti in esame (de-indicizzazione totale o parziale delle pensioni) incidono in modo permanente sulla misura delle pensioni in godimento per tutta la vita residua dei pensionati stessi, aventi cioè misura dell’assegno previdenziale di importo lordo oltre le 3 volte il minimo INPS;

–          che i pensionati penalizzati dalla legge Fornero, e dal decreto 65/2015, sono in buona parte quelli stessi già colpiti nel 2008, e poi ancora nel 2012 e 2013 (con indicizzazione azzerata), e nuovamente dalla limitazione, in misura del 40-45% sul valore complessivo della pensione, rispetto agli indici pieni di rivalutazione, nel 2014, 2015, 2016, 2017, 2018 (8 anni nell’arco di 11 anni, a legislazione vigente, quindi il 72% del periodo);

–          e poi, come può definirsi “non irragionevole” il “bilanciamento”, riferito solo ai pensionati oltre le 3 volte il minimo INPS, tra i diritti dei pensionati stessi e le esigenze di finanza pubblica? Ci vuol proprio una bella dose di ipocrisia fare riferimento al criterio, improprio ed indiretto, della “non irragionevolezza”, rispetto ai criteri della ragionevolezza e della proporzionalità, che finora (in decine di sentenze fondamentali della Corte) hanno sempre rappresentato il “faro” per gli orientamenti ed le decisioni in materia previdenziale!;

–          ci vuol anche un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre  i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzione e contribuzione previdenziale, può poi trovarsi a godere di una misura inferiore di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.). E come può il Prof. Prosperetti svilire significati e valori dei diritti acquisiti, quando l’istituto della pensione rappresenta proprio la “summa” dei diritti acquisiti, derivanti da una vita di lavoro e da adeguate contribuzioni previdenziali?;

–          e come è possibile e giustificabile che lo Stato, per tentare di correggere i propri “errori” di bilancio, si rivalga sui diritti acquisiti e consolidati dei pensionati (categoria debole, per definizione), anche a costo di vilipendere la Costituzione, piuttosto che evitando gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia di bonus introdotti dal Governo Renzi, che rappresentano quanto di più discrezionale e discriminate possa esistere, mentre si negano i diritti veri, dai rinnovi dei contratti all’adeguamento delle pensioni), nonché combattendo  la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.?   

Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dal “tassare due volte” i pensionati che, lo ricordiamo, hanno già il carico fiscale più alto in Italia (IRPEF, patrimoniali vere o mascherate, addizionali regionali e comunali, ecc.), come  nei confronti degli altri Paesi europei, senza peraltro godere di alcun riguardo fiscale, con riferimento ai titolari di pensioni medio-alte, i più tartassati. E che beneficio ha prodotto il sacrificio imposto ai pensionati in questi anni, in particolare nel biennio 2012-2013, rispetto al nostro deficit annuale, ovvero rispetto alla montagna del debito cumulato negli anni, entrambi accresciuti durante il Governo Monti-Fornero?;

–          la Corte, inoltre, si lascia trascinare dai cattivi legislatori in una sorta di “trappola”, quando cioè pare giustificare un criterio “di tipo  reddituale” a sostegno del blocco della indicizzazione delle pensioni di maggiore importo, assimilando di fatto (anche se non in modo esplicito) la loro mancata rivalutazione ad una pretesa tributaria, ma  in questo caso non sarebbero rispettati i due principi costituzionali (di cui all’art. 53 della Cost.), cioè la necessaria “universalità” del prelievo e la progressività dello stesso, infatti, nel caso di specie, c’è chi concorre, e chi no, alle necessità dello Stato e non c’è traccia di “progressività” tra chi percepisce il 100% della  rivalutazione dovuta delle pensioni e chi lo 0%, o ancor meno dello 0%, essendo intaccato (con il cosiddetto “contributo di solidarietà” di tipo espropriativo, in aggiunta alla mancata indicizzazione) non solo il reale potere d’acquisto delle pensioni, ma addirittura incisa la misura nominale della pensione maturata e già sacralizzata con decreto dell’Ente gestore (INPS, ex INPDAP);

–          infine, l’obbligo costituzionale di cui all’art. 81 della Cost. (cioè il pareggio annuale di bilancio) preesisteva alla sentenza 70/2015, e le norme costituzionali di cui agli artt. 3, 36, 38, 53 e 136 sono le stesse in vigore ai tempi della sentenza 70/2015, come del decreto 65/2015, quindi delle due l’una, e cioè  la sentenza 70/2015 non rispetta fedelmente principi e valori costituzionali vigenti, ovvero (come noi crediamo) non li rispetta il decreto 65/2015. E tuttavia  la sentenza della Corte del 25/10/2017 tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè di realizzare la quadratura del cerchio, vale a dire respingendo le censure di incostituzionalità del decreto 65/2015, sollevate da una quindicina di giudici delle diverse Corti regionali dei Conti del nostro Paese, a seguito di migliaia di nostri ricorsi e diffide.

CONCLUSIONI

Tutto ciò premesso e considerato, è giunto il tempo che anche la Corte  costituzionale (ammesso che sia libera di attenersi ai principi e valori della Costituzione vigente, senza ridursi a strumento ancillare e complice del Potere) abbandoni ipocrisie ed ambiguità, riconoscendo che gli interventi recenti in materia previdenziale, in particolare quelli di cui alle leggi 247/2007, 214/2011, 147/2013 e 109/2015, equivalgono di fatto a prestazioni patrimoniali di natura sostanzialmente tributaria, al di là del nomen juris attribuito (de-indicizzazioni, contributi di solidarietà, ecc.), in quanto: doverose e coatte, non connesse ad un rapporto sinallagmatico tra le Parti, collegate esclusivamente alla pubblica spesa (vincoli di bilancio, riduzione della spesa previdenziale, ecc.). Oggi assistiamo invece allo scandalo che la legislazione previdenziale diventa strumento improprio per la politica dei redditi, della ridistribuzione delle risorse, quindi dello stesso assetto socio-economico del Paese.

Inoltre è giusto porsi anche il problema dei criteri di nomina dei giudici costituzionali, che non avviene ordinariamente sulla base di criteri di competenza, qualità, saggezza ed imparzialità, ma secondo criteri di discrezionalità politico-partitica. Sarebbe infatti inquietante pensare che la recente “capriola” fatta dalla Corte costituzionale, su identica materia, avvenuta a distanza di poco più di due anni, sia dipesa solo dalle nomine dei Prof.ri Augusto Antonio Barbera e Giulio Prosperetti (avvenute nel dicembre 2015, mediante elezione parlamentare), dopo che gli stessi avevano pubblicamente criticato la sentenza 70/2015. Si spigherebbero allora anche le difficoltà nella scelta politica per ricoprire i posti vacanti con i due giudici anzidetti, ed il lungo braccio di ferro tra le forze politico-partitiche, tese alla ricerca di giudici con il cuore, e forse anche con la mente, collocati “a sinistra”, quindi verosimilmente più compiacenti nei confronti del “Principe di turno”.

Ma in questo modo la Corte perde ogni credibilità, se insegue l’input politico, sconfessando se stessa; se rinuncia al suo ruolo istituzionale di controllo sulla correttezza e coerenza del divenire legislativo in rapporto ai principi costituzionali; se interviene ex post a “coprire e giustificare” ogni disinvoltura dei legislatori; se i giudici “leggono” la Costituzione con gli occhiali della loro “parte” politica o convenienza partitica, ecc. 

Il risultato di quanto anzidetto è che il legislatore (a chiudere il circolo vizioso) non rispetta più né lettera né spirito delle sentenze della Corte (come è avvenuto con il decreto 65/2015 rispetto alla sentenza 70/2015), nella convinzione  la Corte stessa sarebbe poi intervenuta a “ricucire lo strappo”, come in realtà si è  verificato con la sentenza 25/10/2017, di significato opposto, a giudicare dal comunicato stampa in esame.

Ugualmente era avvenuto con la legge Letta 147/2013, che ha riproposto in modo aggravato il contributo di solidarietà, già bocciato con sentenza della Corte 116/2013, poi re-intervenuta per “metterci una pezza”.

Con questo modo di procedere la Corte non assolve al suo ruolo di controllo e di educazione legislativa ed i giudici costituzionali non meritano allora  i loro privilegi e le loro retribuzioni, se finiscono sempre più per assomigliare ad una copia stinta ed impropria degli stessi legislatori ordinari.

Ciò nonostante noi della FEDER.S.P.eV. ( Federazione Sanitari  Pensionati e Vedove/i) rimaniamo in campo a testimoniare valori e principi costituzionali, più e meglio forse degli attuali giudici, allarmando doverosamente la categoria rappresentata, specie in prossimità delle prossime elezioni politiche, con il grido: tremate pensionati, i “barbari” son tornati!

Speriamo ora che, almeno in Europa, le magistrature competenti, cui ci rivolgeremo, non abbiano subito e non subiscano la stessa velenosa contaminazione, patita dalla nostra Corte, da parte della cattiva politica, capace di distruggere diritti e principi, indistintamente a danno di persone giovani o anziane.

Prof. Michele Poerio (Pres. Naz. FEDER.S.P.e V.); Dott. Carlo Sizia ( Direttivo Naz. FEDER.S.P.e V)

Altre dichiarazioni e comunicati… (parte 2)

In allegato il comunicato de «le Lotte dei Pensionati», sotto quello del CoNUP COORDINAMENTO NAZIONALE UNITARIO PENSIONATI

Esprimiamo tutta la nostra amarezza per gli esiti della sentenza della Corte Costituzionale sul tema della perequazione negata ai pensionati. Nonostante le mozioni votate da ben 8 consigli regionali che rappresentano comunque oltre il 50% dei cittadini, mozioni spesso vitate all’unanimità che riconoscevano le buone ragioni dei pensionati e la necessità di ripristinare il diritto loro negato. Oltre 17.000 i ricordi presentati, oltre 30.000 le domande presentate all’INPS dono state totalmente ignorate. Numeri che dimostrano una partecipazione attiva e diffusa e che hanno un peso politico rilevante.

Del resto non è possibile continuare a comprimere salari e pensioni perché è statisticamente dimostrato che i redditi familiari sono in calo sistematico, altro che uscire dalla crisi, sono queste stesse misure ad alimentarla.

Infine, ci inquieta che già nella giornata di ieri sua stata annunciato a mezzo stampa l’esito del pronunciamento e con le stesse argomentazioni.

Leggeremo le motivazioni e su quella base faremo le considerazioni sul come proseguire la nostra lotta, in difesa delle pensioni di oggi e di domani, senza escludere un nuovo ricorso alla Corte di Giustizia Europea.

Per il CoNUP

Altre dichiarazioni….

DOPO LA NOSTRA DURA REAZIONE di IERI ALLA SENTENZA DELLA CONSULTA, che legittima i PLURIENNALI FURTI ai PENSIONATI, anche ENZO GALLORI (leader storico dei pensionati delle ferrovie) ha REAGITO IN MODO ANALOGO.

Pubblichiamo volentieri (condividendola) la Sua dichiarazione. (nota di Stefano Biasioli)

DICHIARAZIONE DI ENZO GALLORI (Redattore de: Lotte dei Pensionati)  in merito alla sentenza della Consulta , che ha bocciato i ricorsi dei pensionati:

“Avevamo cento diritti e cento ragioni. In più avevamo decine e decine di sentenze, precedenti, talune della stessa Consulta, che confermavano le nostre ragioni, ma il clima che stiamo vivendo in Italia e lo stravolgimento dei dettati della Costituzione sono ormai arrivati all’interno della stessa Corte Costituzionale, fino a farci pensare che la Carta Repubblicana non esiste più.

L’ingiusta sentenza, anticipata dalla stampa il giorno stesso dell’udienza, ancora prima che si tenesse la riunione, ci fa pensare a sotterfugi, che non aiutano la trasparenza e l’autonomia della Corte Costituzionale.

D’altra parte, con questa sentenza, a parere nostro, viene stravolta la precedente sentenza, che ci riconosceva il pieno diritto alla perequazione. Se i miei nove euro al mese (una tantum), che mi ha dato Poletti nel suo decreto bonus, sono riconosciuti una cifra “equa” come viene stabilito oggi, forse era meglio non darci niente! 

Siamo curiosi di conoscere le motivazioni della sentenza, che sicuramente impugneremo presso la Corte Europea, che in base ai trattati di Lisbona e di Nizza, sottoscritti anche dall’Italia, non potrà che darci ragione. 

Infine la composizione della Corte ha cambiato membri e connotati, con persone, a nostro giudizio, più favorevoli al Governo che non ai lavoratori e ai pensionati, mettendo, secondo noi, in discussione quell’autonomia necessaria per il suo ruolo istituzionale “.

Enzo Gallori