Resoconto breve del Convegno di Padova (21.12.2017)

Buona l’affluenza dei Pensionati Veneti, oggi pomeriggio.

Con una quarantina di slides Biasioli (vedi nella sezione “documenti” del sito, con il titolo “Slides Padova 21.12.17”) ha riassunto la situazione pensionistica attuale, commentando criticamente e dettagliatamente la Sentenza 250/17 della Consulta che, con una decisione “politica e non tecnica” ha rigettato le migliaia di ricorsi contro la legge 109/2015.

L’assemblea ha discusso animatamente dei problemi e degli effetti della suddetta Sentenza, concordando sulla violazione dell’art. 38 della Costituzione. L’Avv. Carruba ha ulteriormente chiarito le varie possibilità di impugnare la Sentenza 250/17, in diverse sedi istituzionali, comprese quelle europee.

Tutti i presenti si sono compiaciuti della manifestazione pensionistica programmata per il 7 febbraio 2018 dal Forum Pensionati, che racchiude una quindicina di organizzazioni pensionistiche di varia estrazione tra cui: Leonida, FEDERSPeV, CONFEDIR, DIRSTAT, CISAL …..

In massa i presenti hanno sottoscritto il modulo di pre-adesione alla nuova azione legale 2018 presso la CEDU di Strasburgo.

Ad oggi, così, le adesioni superano largamente il centinaio.

Vi forniremo ulteriori notizie a breve, dopo le festività.

Cogliamo l’occasione per porgere a Tutti i frequentatori del nostro sito i migliori Auguri per il nuovo anno. Ne abbiamo bisogno Tutti !

 

RECENSIONE del libro “PENSIONI: LA RIDUZIONE DEL DANNO”

Vi giro questa mail con la quale io e il mio amico Piero Pistolesi abbiamo recensito il libro di Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi “Pensioni: La Riduzione del danno”. Poiché seguite la materia previdenziale credo che sia bene conoscere ciò che bolle in pentola al Ministero del Lavoro al quale darà manforte il Movimento 5 Stelle che tramite il suo più insignificante esponente e cioè Di Maio ha già avuto modo ieri sera di esprimersi dalla Gruber sulle pensioni.     (Michele Caponi)

Cari amici, io insieme a Piero Pistolesi voglio segnalarvi questo libro che è un libro pieno di inesattezze, omissioni e di basso valore tecnico, ma di alto valore politico. Perché dico questo? Semplice: perché questi due autori sono da anni nella Commissione Lavoro della Camera e si occupano di previdenza a stretto contatto con il Ministero del Lavoro. Ora ricordo che i politici possono cambiare, ma i dirigenti del Ministero del Lavoro no. Da quando poi la Fornero ha avocato al Ministero del Lavoro quello che era il compito del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, leggere il pensiero di questi due esponenti del PD significa capire quale potrebbe essere lo scenario futuro delle riforme previdenziali o almeno il tentativo che le multinazionali dell’alta finanza hanno in animo di fare tramite i loro servi sparsi nel mondo politico e dei media.

Nell’appunto allegato sono elencati gli aspetti del libro che più ci hanno colpito. Purtroppo prenderne visione personalmente, come sarebbe giusto fare, comporterà una spesa (13 euro) che andrà a favore di due mediocri cultori della materia che meriterebbero piuttosto di essere ignorati.

Michele

Libro di Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi “PENSIONI: la RIDUZIONE del DANNO”. 

Recensione critica di Michele Caponi e Piero Pistolesi.

ALCUNE CONSIDERAZIONI:

  • Sono stati ignorati e volutamente sminuiti alcuni effetti importanti delle riforme Amato e Dini perché non si pensasse che il sistema fosse stato definitivamente messo in equilibrio. Basta ricordare che Dini affermò che con tale riforma si sarebbe messo in sicurezza il sistema fino al 2050.
  • Della riforma Dini non si parla della revisione del meccanismo della pensione di reversibilità che in presenza di redditi del coniuge superstite può arrivare fino al 50% di riduzione (quindi il 50% del 60%).
  • Sull’introduzione del sistema contributivo con la riforma Dini, la conservazione del sistema retributivo per i lavoratore che al 31 dicembre del 1995 avessero maturato 18 anni di contributi, viene presentata come il mantenimento di un privilegio e non come la scelta del legislatore di adottare un criterio di gradualità, anche in relazione alla disponibilità di un arco temporale sufficiente alla costruzione del “secondo pilastro”. Non viene riferito che tra l’alternativa contributivo/retributivo la riforma Dini prevedeva anche la possibilità di un regime misto, cosa che ne avrebbe sottolineato ancora una volta la scelta di un criterio graduale (noi peraltro rimaniamo dell’idea del mantenimento del sistema a ripartizione contro la proposta di un sistema a capitalizzazione con la reintroduzione per tutti del calcolo della pensione con un sistema retributivo legato alle retribuzioni dell’ultimo periodo lavorativo, seppur ampio).
  • Sulla riforma Amato del 1992 viene ignorato il fatto che il rendimento del 2% della media retributiva scende rapidamente fin sotto l’1% sopra la prima fascia di retribuzione pensionabile (oggi 46000 euro l’anno) per cui si ottiene non solo una riduzione drastica delle pensioni alte, ma si introduce un significativo criterio solidaristico e redistributivo di ricchezza. Dal considerare gli ultimi 5 anni di retribuzione si passa ai 10 anni. Viene modificato il meccanismo di perequazione automatica delle pensioni al costo della vita sganciandole dalla variazione dei salari dei lavoratori dell’Industria (che è tuttora invece presente in Germania). L’adeguamento al costo della vita da semestrale diventa annuale.
  • Ci sono delle gravi inesattezze come quella di attribuire le finestre (definite nel libro un’aberrazione) ad un governo di destra (si fa riferimento alla cosiddetta finestra mobile di 12/18 mesi) mentre le finestre sono nate con la riforma Dini, che ne istituiva quattro per le pensioni di anzianità; successivamente Maroni le ridusse a due mentre Prodi ne ampliava la platea, estendendole anche alle pensioni di vecchiaia.
  • Non si è sottolineato il fatto che lo “scalone” di Maroni in realtà era stato preavvisato con 4 anni di anticipo, ma che, una volta caduto il Governo di centro-destra, si sono dovuti fare i salti mortali per far finta di demolire quello “scalone”. Né si fa riferimento al cosiddetto “superbonus” previsto sempre dalla riforma Maroni. La riforma in questione prevedeva, per chi avesse maturato il diritto alla pensione di anzianità e decidesse di rimanere al lavoro, il congelamento della pensione maturata ed il riconoscimento nella busta paga dei contributi a suo carico e a carico del datore di lavoro, come retribuzione esente. Gli aspetti positivi di questa misura sono nell’incentivare la permanenza in servizio, anziché disincentivare il pensionamento, nell’affermare – senza ombra di dubbio e nei fatti – la natura retributiva dei contributi previdenziali e nel certificare l’entità della pensione maturata, che difficilmente sarebbe stato possibile modificare in futuro.
  • Non è stato dato risalto alla mancanza di un criterio solidaristico all’interno del calcolo contributivo della pensione, presente invece nel calcolo retributivo.
  • Non si è fatto alcun cenno alle varie sospensioni della perequazione della pensione e alle parziali rivalutazioni e all’aumento della loro tassazione sopra un certo importo (non certo d’oro) che hanno determinato una perdita del potere d’acquisto delle pensioni del 10% negli ultimi 10 anni, del 30% negli ultimi 20 (complice anche il passaggio all’euro) ed oltre il 30% per gli assegni più vecchi.
  • Che il blocco della rivalutazione della riforma Monti-Fornero, dapprima dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte e poi costituzionale da una successiva sentenza di una Corte Costituzionale i cui nuovi membri erano stati accuratamente selezionati, non salvava neppure i pensionati più vecchi che avevano già subìto precedenti blocchi
  • Si è dato un gran risalto alle 8 salvaguardie degli esodati come fosse una conquista e non il semplice rispetto del patto cittadino-Stato peraltro per un numero di circa 150.000 pensionandi su 16 mln di pensionati e per un tempo limitato di anni. Non si è detto che gli “esodati” facevano parte, in maggioranza, del Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti che era sempre stato in attivo.
  • Non si è parlato di Inpdap e della sostituzione di Mastrapasqua, che aveva osato dichiararsi preoccupato per i bilanci dell’INPS, al quale l’allora presidente della Commissione Lavoro della Camera Maurizio Sacconi aveva replicato dicendo che non c’era alcun problema di sostenibilità del sistema pensionistico nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
  • Il progetto di riforma Damiano-Gnecchi, pur senza metterlo in discussione, prende atto che il sistema contributivo a capitalizzazione virtuale (definito in passato dal Professor Mario Alberto Coppini –luminare di statura mondiale della materia- un ritorno alla preistoria della previdenza pubblica) non è in grado di assicurare pensioni dignitose e prevede una sorta di ripristino dell’integrazione al trattamento minimo a carico della fiscalità generale. Tutto questo a fronte di una riduzione strutturale delle aliquote contributive, data per inevitabile! Praticamente si andrebbe verso la trasformazione in un sistema assistenziale del sistema previdenziale italiano, al pari di quello inglese o danese con perdita dell’aggancio al tenore sociale raggiunto alla fine dell’attività lavorativa. La nuova forma di importo minimo garantito, infine, potrebbe incentivare l’evasione fiscale e contributiva, come già avveniva con l’integrazione al minimo.
  • Si vuole per il motivo di cui sopra che il mantenimento del tenore sociale raggiunto a fine vita lavorativa si possa ottenere solo con la previdenza complementare, cosa che comporterebbe il raggiungimento di questo obbiettivo solo per i dipendenti di grandi aziende in buona salute e per figure gerarchiche alte che farebbero confluire le riduzioni contestuali della contribuzione obbligatoria sulla previdenza integrativa e sempre in dispregio del criterio solidaristico eliminato dalla riforma Dini. Questo naturalmente se gli investimenti dei contributi accantonati daranno i loro frutti, il che è del tutto aleatorio. Trasformare quello che chiamavamo secondo pilastro nel primo va a vantaggio solo dei gestori di risparmio.
  • Si sono dedicate solo due pagine ai sistemi pensionistici degli altri Paesi limitandosi solo a Francia, Regno Unito e Germania. Personalmente non conosco quello francese, ma quello tedesco per quanto ne so riconosce il 60% dello stipendio goduto nell’ultimo anno di lavoro (con 40 anni di contribuzione) e le pensioni sono defiscalizzate e agganciate all’aumento delle retribuzioni dei lavoratori dell’Industria (come era da noi prima della riforma Amato). Della pensione inglese poi si tace che il sistema pensionistico inglese è improntato a ben altri criteri e la contribuzione obbligatoria pagata dai lavoratori è un terzo di quella italiana
  • Resta positiva e più che condivisibile la chiara ed inequivocabile critica alla riforma Fornero che “ha creato più danni di quanti ne abbia risolti”.
  • Gli autori soffiano sul fuoco del “conflitto generazionale” quando si riferiscono ai cosiddetti Baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964: una generazione che ha beneficiato di un prolungato periodo di sviluppo economico. Ciò ha permesso di sostenere dei sistemi pensionistici robusti, basati sul criterio retributivo (a prestazione definita). La pensione è correlata alle retribuzione degli ultimi anni di lavoro.   Il boom delle natalità nell’arco di tempo indicato è un fenomeno che si è verificato negli Stati Uniti ed è li che il termine è nato. In Italia non c’è stato boom demografico e se vogliamo dare al termine il significato di “figli del boom economico” allora dobbiamo riconoscere che di un prolungato periodo di sviluppo economico hanno beneficiato anche i genitori dei cosiddetti baby boomers. Così il robusto sistema pensionistico è toccato in sorte prima ai genitori dei baby boomers (cosa della quale siamo assolutamente contenti e non abbiamo rivendicazioni da fare nei confronti di chi non c’è neanche più). Il sistema pensionistico a “ripartizione” e i contributi degli attivi (baby boomers) hanno consentito il pagamento delle pensioni dei loro nonni e genitori. Tali pensioni erano calcolate sulla base delle ultime retribuzioni. Perfino le ferie non usufruite nel corso degli anni di lavoro venivano liquidate con l’ultima retribuzione prima della cessazione, maggiorate del 20%, ed entravano a far parte del calcolo della pensione. Nulla di illegale, va detto. L’età per la pensione di vecchiaia era di 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. La possibilità di andare in pensione di anzianità si maturava generalmente a 57 anni.   Ma certo ora fa comodo riferire il “prolungato periodo di sviluppo economico” e il “robusto sistema pensionistico” solo ai cosiddetti baby boomers (gli altri non ci sono più), per alimentare odiose fratture tra padri e figli, giustificare proposte di ulteriori tagli anche retroattivi, calpestando i diritti acquisiti.

 

Nel saggio Damiano-Gnecchi Il mercato del lavoro sembra assumere le sue configurazioni in modo quasi naturale, a prescindere dall’intervento umano.

In questa prospettiva viene ad essere ignorata l’inevitabile dialettica capitale-lavoro e consegnata alla storia passata l’organizzazione di forze politiche e sindacali in grado di influire sui processi economici e produttivi.

Viene ignorata inoltre una copiosa attività legislativa diretta ad andare incontro alle sole esigenze del capitale e acriticamente rispondente alla, quando non compartecipe creatrice della, “configurazione assunta dal mercato del lavoro”.

Pur riconoscendo che “l’affermarsi dell’ideologia neoliberista e gli interessi del capitalismo finanziario hanno dominato la politica economica e la politica sociale, determinando la precarizzazione delle forme di impiego a partire dagli anni novanta”, si pone l’accento soprattutto sul problema demografico per concludere che ben prima della crisi iniziata nel 2007, “la configurazione pensionistica aveva mostrato la corda per ragioni demografiche”.

La ricetta finisce per riassumersi in una riduzione del ruolo della previdenza pubblica, fino ad una sua trasformazione in assistenza (ricordiamo la proposta di Tito Boeri di definire l’INPS “Istituto della protezione sociale”) e nella sua sostituzione con la previdenza privata.

Roma 7 dicembre 2017

Michele Caponi e Piero Pistolesi

La “Fake-News” di Di Maio – Parte 3

DI MAIO È UN POPULISTA SPROVVEDUTO ed IGNORANTE !!!!

Di Maio ha detto che vorrebbe recuperare 12 miliardi dalle pensioni “ricche” per sistemare i guasti causati dalla legge Fornero.

Di MAIO è un “IGNORANTE” perché IGNORA i COSTI PENSIONISTICI ed IGNORA I SALASSI FATTI (anni 2012-2018) ai PENSIONATI, dai governi Monti-Letta-Renzi e Gentiloni.

Tra contributo di solidarietà e mancata rivalutazione delle pensioni e tasse varie, i Pensionati INPS con PENSIONE SUPERIORE a 4 VOLTE IL MINIMO INPS (ossia > 2000 euro lordi/mese) SONO GIA’ STATI SALASSATI (stime minimali !) per CIRCA

a) 28,900 miliardi (=1.000 euro/anno – di media – per 7 anni x 2.407.475 pensionati da 2.000 a 5.000 euro lordi/mese)

b) 1,85 miliardi (=10.000 euro/anno – di media – per 7 anni x 184.936 pensionati over 5.000).

In tutto, 30,75 miliardi di “furti pensionistici” cui vanno aggiunti circa 43 miliardi di TASSE/anno…..

Solo i pensionati INPS sono stati chiamati a tamponare la crisi economica dell’INPS (legata al “rosso” causato dall’assistenza e non dalla previdenza) !

CUI PRODEST , se il debito pubblico è cresciuto, sotto i governi PD ?

Di Maio, di certo, non è stato taglieggiato dallo Stato italiano, così come i vitalizi dei parlamentari e politici vari non hanno subìto confische, in questi 7 lunghi anni ….!

La “Fake-News” di Di Maio – Parte 2

DI MAIO È UN POPULISTA SPROVVEDUTO ed IGNORANTE !!!!

Di Maio ha detto che vorrebbe recuperare 12 miliardi dalle pensioni “ricche” per sistemare i guasti causati dalla legge Fornero.

Di MAIO è un “IGNORANTE” perché IGNORA i COSTI PENSIONISTICI. Infatti per recuperare quella cifra dovrebbe :

a) sospendere per un anno il 71% del costo delle pensioni relative ai pensionati (n°= 184.936 ) con pensioni over 5.000 euro lordi/mese (costano 16,919 miliardi/anno)….. un taglio del 71% !!! oppure

b) tagliare del 12% annuo (12%) le pensioni con valori lordi da 2000 euro in su (2.592.411 pensioni), il cui costo complessivo è di 99,426 miliardi/anno (NB: per quanti anni…NdR?)

c) PERDERE IL VOTO di 2,5 milioni di PENSIONATI INPS e delle LORO FAMIGLIE !

La “Fake-News” di Di Maio – Parte 1

SOLO uno SPROVVEDUTO come DI MAIO POTEVA AVERE UNA IDEA COME QUESTA: “… Tagliare le pensioni ricche per recuperare 12 miliardi con cui annullare gli effetti della legge FORNERO…”.

Con queste affermazioni DI MAIO DIMOSTRA:

a) di NON CONOSCERE IL PROBLEMA PENSIONISTICO (non ha mai lavorato in vita sua…ed è arrivato al Parlamento grazie a Grillo…);

b) di NON SAPER FARE di CONTO;

c) di ESSERE UN FIGLIO di BUONA DONNA che, per ottenere consenso, vuole stravolgere i DIRITTI ACQUISITI;

d) di essere POLITICAMENTE INAFFIDABILE ed AUTOLESIONISTA.

NOI PENSIONATI ESASPERATI ORA NON ABBIAMO DUBBI: NON VOTEREMO i 5S, perché vogliono massacrare le pensioni lorde superiori ai 2300 euro lordi/mese!

 

PENSIONI d’ORO: nuovo capitolo

Recentemente, il candidato premier dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, intervistato a “Radioanch’io” ha proposto il taglio delle pensioni al di sopra dei 3000 euro lordi mensili (2300 netti circa).

Con il risparmio di spesa che si ricaverebbe, stimato da Di Maio in 12 miliardi, si potrebbe finanziare – egli sostiene – l’abrogazione della legge Fornero.

Successivamente, l’ufficio comunicazione M5S ha precisato che Di Maio, riferendosi alle “pensioni d’oro”, intendeva assegni pensionistici superiori a 5 mila euro netti, e che il risparmio di spesa di 12 miliardi di euro “sarebbe su più anni”.

In effetti, il dato sul risparmio di spesa è del tutto fuori della realtà, se riferito alla soglia 5000, e molto sovrastimato, se riferito alla soglia 2300.

Il segretario del PD Renzi non ha mancato di polemizzare con Di Maio, in quanto sarebbe “una follia” tagliare pensioni nette di 2300 euro, affatto “d’oro”.

Come si vede, il tema del tagli alle pensioni cd. “d’oro” tiene banco in campagna elettorale.

La proposta dei Cinque Stelle appare demagogica ed illiberale.

Si tratterebbe a tutti gli effetti di un’espropriazione che andrebbe ad incidere sui diritti quesiti dei pensionati e delle loro famiglie, modificando in maniera inaudita la loro vita.

Basti solo dire che questi pensionati ricevono una pensione che rappresenta la restituzione assicurativa dei contributi, versati durante una vita di lavoro, sui quali hanno fatto legittimo ed incondizionato affidamento.

Una misura del genere dovrebbe in ogni caso prevedere il diritto alla restituzione di tutto il montante dei contributi versati durante la vita lavorativa, poiché la pensione che ricevono non è un regalo. Ma questo non viene nemmeno preso in considerazione dai Cinque Stelle.

Nemmeno le idee renziane, però, possono far star tranquilli i pensionati c.d. “d’oro”.

Il consulente economico Gutgeld, pur escludendo interventi nell’immediato, aveva ammesso qualche mese fa che un vero ed efficace risparmio di spesa si sarebbe ottenuto (solo) arrivando a tagliare le pensioni medie di 2000-2500 euro lorde.

Anche il presidente dell’INPS Boeri, nominato da Renzi, aveva proposto, non molto tempo fa, il ricalcolo al ribasso, con metodo contributivo o forfettario, delle pensioni al di sopra di 2000 euro.

Il paradosso è che la spesa pensionistica sorretta da contributi nulli o inadeguati è, generalmente, quella che si situa ai livelli più bassi (pensioni integrate al minimo, baby-pensioni, pensioni sociali, pensioni di invalidità)!

Quello che Tutti dovrebbero sapere

Che le pensioni (ed i pensionati) siano nell’occhio del mirino del Governo, è un fatto incontestabile.

Contributi di solidarietà e blocchi, totali o parziali, delle rivalutazioni pensionistiche sono un dato di fatto che dimostra ampiamente l’assunto.

Non è tutto.

Esponenti del Governo, forze politiche, consulenti economici e fiancheggiatori vari del partito di maggioranza relativa prospettano ed auspicano interventi di ricalcolo delle pensioni (al ribasso, of course) o l’introduzione di nuovi e più estesi “contributi di solidarietà” o addirittura tagli lineari alle pensioni, sopra una certa soglia.

E’ stato anche presentato, da un variegato numero di parlamentari, un progetto di legge costituzionale (proposta di legge n. C3478) inteso a riformare l’art. 38 della Costituzione, all’evidente scopo di rimettere in discussione i trattamenti pensionistici già liquidati.

Tale proposta di modifica costituzionale, dietro il paravento letterale dell’equità, ragionevolezza e non discriminazione tra generazioni, alle quali si dovrebbe ispirare l’azione dell’INPS, nasconde il vero intento di sterilizzare il bilancio previdenziale: i pensionati più abbienti dovranno sacrificare una parte della loro pensione a favore di quelli più bisognosi, senza che il bilancio dello Stato pubblica ne sia gravato.

Sennonché i “pensionati poveri” sono quelli che non hanno versato contribuiti, o ne hanno versati pochi, in rapporto al trattamento goduto.

Non c’è niente di male, anzi, che sia garantita anche a loro una vecchiaia dignitosa.

Ma perché far pagare le loro pensioni ad altri pensionati, in una logica redistributiva, anziché dall’intera collettività attraverso la fiscalità generale?

Si tratta, infatti, incontestabilmente di una spesa assistenziale e non previdenziale.

Ecco dunque, in tutta la sua gravità, il male che affligge il sistema previdenziale italiano: la commistione tra assistenza e previdenza.

Già, perché molti trattamenti pensionistici, erogati dall’INPS, sono poco o nulla sorretti da adeguata contribuzione: pensioni integrate al minimo, baby-pensioni e, in generale, pensioni assistenziali e sociali.

Ma anziché separare convenientemente le due categorie di spesa, si mantiene, anzi si aumenta la confusione tra esse.

Eppure, secondo l’art. 41 della legge n. 88 del 1989 , va assicurato l’equilibrio finanziario delle gestioni previdenziali. Dunque, il bilancio dello Stato non deve coprire con trasferimenti a carico della fiscalità generale la differenza tra uscite per prestazioni della previdenza ed entrate contributive: vanno invece adeguate le aliquote contributive.

Già, ma qual è il bilancio previdenziale?

Coerenza vuole che, in un sistema previdenziale a ripartizione come quello vigente, in cui i contributi incamerati in un determinato periodo vengono utilizzati per finanziare le pensioni erogate in quello stesso periodo, l’entità dei contributi sia proporzionalmente commisurata.

Ed è quello che prevede l’inapplicato (ma vigente) art. 41 della legge n. 88 del 1989, sopra menzionato.

Ovvio che, invece, questa coerenza viene scardinata dalla confusione tra erogazioni previdenziali ed assistenziali.

Oltretutto, la gestione assistenziale, pure affidata all’INPS, presenta contorni tutt’altro che ben definiti.

Il 3° comma, lett. c, dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989 ci fa capire molte cose: una “quota parte” di TUTTE, INDISCRIMINATAMENTE, le pensioni è qualificata come assistenziale.

Si tratta di un dato puramente empirico e convenzionale.

In concreto, è stata fissata una certa cifra nel 1988 (16.504 miliardi di lire) rivalutata annualmente. Nel 2016 si è trattato di 20,3 miliardi di euro che sono stati trasferiti all’INPS dal bilancio dello Stato, per coprire il disavanzo delle gestioni previdenziali (vd., sul punto, la relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, flash n. 6, reperibile sul sito istituzionale www.upbilancio.it).

Ma quali sono le pensioni che hanno bisogno di questo sostegno assistenziale, e quali invece no?

Quali più e quali meno?

Non lo sappiamo.

E come si fa a stabilire se, e quanto, aumentare le aliquote contributive per mantenere in pareggio il bilancio previdenziale, ex art. 41 legge n. 88 del 1989?

Nemmeno possiamo saperlo, se non sappiamo precisamente qual è il bilancio (strettamente) previdenziale, nella descritta “confusione assistenziale”!

Articolo di Lorenzo Stevanato (Magistrato in pensione) pubblicato il 19.12.17 su Formiche.net  Quello che tutti dovrebbero sapere sui bilanci Inps

Sentenza 250/2017 della Consulta: un “pieno” di ipocrisie, false verità, pregiudizi e contraddizioni

La sentenza in esame ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero (L. 214/2011), come modificati-integrati dal decreto 65/2015 (convertito nella legge 109/2015), che avrebbero dovuto recepire i contenuti della precedente sentenza 70/2015 della stessa Corte, che aveva giudicato incostituzionale la norma della legge Fornero che limitava la perequazione delle pensioni in godimento, nel biennio 2012-2013, solo per quelle di importo lordo fino a 3 volte il minimo INPS e nella misura del 100%.

Vediamo e commentiamo le principali motivazioni della sentenza 250/2017, ricordando che il decreto Renzi-Poletti (n. 65/2015) ha rideterminato la perequazione delle pensioni oltre le 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo nel seguente modo: 40% per le pensioni tra 3 e 4 volte il minimo INPS (anziché il 95% della legge Letta 147/2013); 20% per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo INPS (anziché il 75%); 10% per le pensioni tra 5 e 6 volte il minimo INPS (anziché il 50%), lasciando naturalmente ancora al 100% la rivalutazione delle pensioni fino a 3 volte il minimo INPS ed escludendo nuovamente da ogni rivalutazione le pensioni di importo superiore a 6 volte il minimo INPS.

  1. Il decreto 65/2015, secondo la sentenza, non avrebbe eluso il giudicato costituzionale della precedente sentenza 70/2015, ai sensi dell’art.136 della Costituzione. In realtà lo ha eluso, nella misura della rivalutazione, per le pensioni oltre le 3 volte e fino alle 6 volte il minimo INPS, mentre lo ha del tutto disatteso per le pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, cui non è stata riconosciuta rivalutazione alcuna. Infatti i “termini esposti” nella sentenza 70/2015, cioè che la originaria previsione della legge Fornero avesse intaccato “diritti fondamentali, connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)”, sono chiarissimi e si riferiscono certamente anche alle pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS. Inoltre, come riconosce la stessa sentenza 250, “la disciplina dettata dal legislatore deve essere valutata nella sua interezza, perché costituisce un complessivo – ancorché temporaneo – nuovo disegno della perequazione dei trattamenti pensionistici”. Quindi è la stessa Corte di oggi che non rispetta e non crede alle sue sentenze di ieri, a Costituzione immutata.
  2. La sentenza 250/2017 afferma che il decreto 65/2015 non poteva, nel caso in questione, nell’accogliere le sollecitazioni di “questa Corte” (sentenza 70/2015), “che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti – come in effetti è stato – all’arco temporale relativo agli anni 2012 e 2013, cui faceva riferimento la disposizione annullata”. In realtà, ancorché retroattivo, l’effetto del decreto 65/2015 non è stato limitato al biennio 2012 e 2013, infatti (comma 25-bis) per i percettori di pensioni oltre 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo, si è protratto per il biennio successivo (2014 e 2015), con abbattimento al 20% di quanto già concesso a titolo di perequazione nel biennio precedente e, dal 2016 in poi, con abbattimento al 50%. Questa concessione (prima) e retrocessione (poi) è una assoluta contraddizione, in tema di riconosciuta perequazione delle pensioni. Anche per i percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS l’effetto perverso della legge Fornero, ribadito dal decreto 65/2015 (comma 25, sub e) si è protratto a tempo indeterminato, dimostrando che la Corte, su questi aspetti, non ha affermato il vero. In concreto, il decreto 65 ha restituito circa il 10% di quanto maltolto dalla legge Fornero in tema di perequazione nel 2012-2013.
  3. La sentenza 250/2017 afferma che “Deve escludersi che, in capo ai titolari di trattamenti pensionistici, si fosse determinato un affidamento nell’applicazione della disciplina immediatamente risultante dalla sentenza 70/2015” (cioè i migliori criteri perequativi della legge 388/2000, preesistente alla legge Fornero). La Corte evidentemente dimentica che i massimi esponenti dello stesso Organismo avevano dichiarato pubblicamente che la sentenza era “immediatamente applicativa” e bisogna proprio dare degli sprovveduti, specie a coloro che si erano rivolti alla magistratura per veder riconosciuto il loro diritto alla perequazione, qualora essi avessero ritenuto ininfluente la sentenza 70/2015, anche per quanto riguarda il contenzioso in atto.
  4. Veramente penosa e fuorviante risulta la argomentazione della sentenza 250/2017 circa la oziosa, e del tutto opinabile, questione se l’onere imposto dalla mancata indicizzazione delle pensioni “per soli due anni”, con conseguente “trascinamento”, sia “onere esorbitante” rispetto alle esigenze “di interesse generale, perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis”, come modificati-introdotti dal decreto 65/2015. In realtà negli ultimi 11 anni, per 8 anni (72% del periodo) la indicizzazione delle pensioni oltre le 6/8 volte il minimo INPS è stata del tutto azzerata nel 2008, 2012, 2013, limitata al 40% nel 2014 fino all’importo di 6 volte il minimo INPS (circa 3.000 €) e ancora azzerata sugli importi ulteriori, ridotta al 45% sull’intero importo dell’assegno negli anni 2015, 2016, 2017, 2018. Come conseguenza di tale accanimento, la pensione di questa categoria di pensionati ha perso non meno del 10-15% del suo valore reale, ed in via definitiva e crescente (ad oggi, da circa 500 a 1.000 € netti/mese, a seconda della misura della pensione di diritto in godimento).
  5. La sentenza 250/2017 esclude in modo stizzito, ribadendo un suo precedente giudizio, cioè che “le misure di blocco della rivalutazione automatica, ed il suo effetto di trascinamento, abbiano natura tributaria”, quasi che fosse impossibile modificare le statuizioni precedenti, quando errate, ovvero confermare quelle coerenti con la lettera e lo spirito della Costituzione vigente. La motivazione secondo cui le misure di blocco della perequazione “non ne muta la natura di misura di mero risparmio di spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo” è veramente ridicola, ancor più dopo che la legge 196/2009 ha stabilito (come da consolidata logica economica e contabile) che la copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi e maggiori oneri, ovvero minori entrate, può essere determinata anche “mediante riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa”. E così i sacrifici imposti ai pensionati anzidetti sono andati ad alimentare provvedimenti, altrettanto impropri del Governo Renzi, quali il bonus degli 80 €/mese ai redditi medio-bassi, ma senza rinnovare il contratto scaduto dei pubblici dipendenti e indicizzare le pensioni medio-alte, il bonus-mamme, il bonus-bebé, il bonus-casa, il bonus-cultura, ecc., tutte scelte discrezionali e discriminanti, senza pensare alle esigenze di carattere generale, e ancor meno a ridurre il debito della Stato, o a ridurne il deficit annuale, ma solo a raccattare un consenso immeritato con denaro altrui.
  6. La sentenza 250, dopo aver ricordato che la rivalutazione automatica delle pensioni “ si prefigge di assicurare il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti di quiescenza” e di aver fatto riferimento, nella sua decisione, ai principi di solidarietà, razionalità-equità, quindi di ragionevolezza, “tenuto conto del contenimento della spesa e chiarendo che deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le esigenze di vita” dei singoli pensionati, dichiara di aver raggiunto l’obiettivo “per il tramite e nella misura” dell’art. 38, secondo comma, della Cost., il che comporta “solo indirettamente” un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost. (in piena dissonanza quindi dalle conclusioni della sentenza 70/2015), conclude con queste affermazioni sconcertanti:
  • che le esigenze del legislatore sono preservate “attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere d’acquisto dei propri trattamenti”. Per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS (che, tra l’altro, sono quelli che hanno il miglior rapporto tra contributi versati e relative prestazioni previdenziali) il sacrificio della perequazione è, in realtà, totale e permanente;
  • che le pensioni medio-alte (individuate in quelle oltre le 6 volte il minimo INPS) presentano “margini di resistenza all’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione”. In realtà l’inflazione non distingue tra pensioni alte o basse, ma quelle alte subiscono maggiore danno perché sono gravate da un carico fiscale progressivo e crescente e la loro indicizzazione (a prescindere da tagli o blocchi) è già percentualmente ridotta in via ordinaria;
  • che negli anni 2011 e 2012 l’inflazione è “di livello piuttosto contenuto”. Falso! Infatti il recupero inflattivo riconosciuto, rispettivamente negli anni 2012 e 2013, è stato del + 2,7% e del + 3%;
  • che il taglio (per le pensioni oltre le 3 volte e fino a 6 volte il minimo INPS) o il blocco (per le pensioni oltre le 6 volte) “possa pregiudicare l’adeguatezza degli stessi (trattamenti), considerati nel loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita”. Qui il ragionamento è paradossale ed irrealistico perché concepisce il termine adeguatezza in modo statico, cioè di pensione sufficiente per definizione, in quanto superiore a 6 volte il minimo INPS, anziché dinamico perché rapportato alle esigenze di vita dei singoli pensionati, che sono mutevoli nel tempo, per definizione, in considerazione del progredire dell’età ed ai maggiori bisogni di salute ed ai costi delle cure connesse, che richiedono tutela. Anzi, dalla sentenza pare emergere una interpretazione del significato “adeguamento” di senso opposto a quello comune (cioè di crescita), vale a dire di volontà di “adeguare” le pensioni più alte a quelle di misura inferiore attraverso il blocco protratto della indicizzazione delle prime . Sapevamo che quelle anzidette erano le opinioni del Prof Giulio Prosperetti, che nella primavera 2015 aveva criticato per iscritto la sentenza 70/2015 come “manifestamente inadeguata”, lodando l’intento virtuoso del legislatore (Monti-Fornero), cioè “quello di provocare un graduale abbassamento delle pensioni”, naturalmente di quelle alte, in un afflato demagogico populista-pauperista, in spregio a qualsivoglia valutazione dei meriti maturati. Anche il Prof. Antonio Augusto Barbera aveva criticato la stessa sentenza, non a caso prontamente nominati dalle Camere a dicembre 2015 in qualità di giudici costituzionali. Ci auguravamo, tuttavia, che tali opinioni fossero isolate, o comunque minoritarie, ed invece ci troviamo oggi a constatare che tali giudici contribuiscono a dare la interpretazione autentica di una sentenza che avevano pubblicamente criticato.
  • Infine, nell’applicare il principio di proporzionalità ai trattamenti di quiescenza – considerati nella loro funzione sostitutiva del cessato reddito di lavoro – la Corte nella sentenza 250 ha precisato che ciò non comporta “un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione” (cosa peraltro che nessuno di noi ha mai chiesto e chiede), e che la garanzia dell’art. 38 Cost. (adeguatezza nel tempo delle pensioni) “è agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale”. Dalle considerazioni anzidette la sentenza 250/2017 giunge alle conclusioni che le argomentazioni esposte, anche con riferimento al principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost., muovono nella direzione della “non irragionevolezza” del “bilanciamento” operato dai commi 25 e 25-bis tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Senonché perché ci sia un bilanciamento effettivo bisogna che su entrambi i piatti della bilancia ci sia qualcosa, mentre sul piatto della bilancia degli interessi dei pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS non c’è nulla. Inoltre ci vuole un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzione e contribuzione previdenziale, può poi trovarsi a godere di una misura pressoché identica di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.).

Naturalmente le esigenze finanziarie dello Stato non hanno tratto alcun beneficio dall’accanimento contro le pensioni dei titolari di assegni oltre le 6 volte il minimo INPS. D’altra parte cosa si poteva sperare, tartassando 770.000 pensionati, lasciando pressoché immuni (o marginalmente penalizzati) gli altri 15 milioni e mezzo di colleghi pensionati anch’essi?.

E così il debito dello Stato è continuato a salire e l’equilibrio di bilancio (anzi, il pareggio di bilancio, sacralizzato in Costituzione nel 2012) è di là da venire.

E perché gli squilibri e gli errori nel bilancio dello Stato non si correggono, anziché rubando dalla tasca dei pensionati che non beneficiano della no tax area, anzi vengono tassati due volte, evitando piuttosto gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia dei bonus), nonché combattendo la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.? Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dai pensionati.

In definitiva, ritengo che la sentenza in commento sia vergognosa e contraddittoria, ma certo qualche imbarazzo devono averlo avuto anche gli attuali giudici costituzionali, se hanno avuto il pudore di non andare al di là della definizione di “non irragionevolezza” attribuito alle norme di cui ai commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero, come rinnovati dal decreto 65/2015 del Governo Renzi.

Tuttavia è insopportabile l’ipocrisia della Corte nel “far finta” che ci sia continuità e coerenza tra la sentenza 70/2015 e 250/2017 per poter “bollinare” come costituzionalmente legittimo l’inguardabile decreto 65/2015, convertito in legge 109/2015.

Questa sentenza ripropone oggi la questione enorme del modo di essere della Corte costituzionale, cioè di Organismo compiacente al limite del servilismo nei confronti del Potere politico e legislativo, vera appendice della politica, anche della peggior politica, al punto di disattendere principi e valori della Costituzione vigente e sconfessare decenni di sentenze coerenti in materia previdenziale, addirittura interpretando la nostra Carta alla luce di quella che non è ancora legge, ma semplicemente disegno di legge costituzionale (dei deputati Mazziotti ed Altri) di modifica dell’art. 38 della Costituzione, che vorrebbe dettare criteri, modalità, limiti attraverso i quali realizzare, o contingentare, l’adeguamento delle pensioni.

Senza precise garanzie di indipendenza, qualità e libertà di giudizio, la Corte costituzionale non ha alcuna utilità e ragione di essere.

Dott. Carlo Sizia – Comitato direttivo nazionale FEDER.S.P.eV.