Quello che Tutti dovrebbero sapere

Che le pensioni (ed i pensionati) siano nell’occhio del mirino del Governo, è un fatto incontestabile.

Contributi di solidarietà e blocchi, totali o parziali, delle rivalutazioni pensionistiche sono un dato di fatto che dimostra ampiamente l’assunto.

Non è tutto.

Esponenti del Governo, forze politiche, consulenti economici e fiancheggiatori vari del partito di maggioranza relativa prospettano ed auspicano interventi di ricalcolo delle pensioni (al ribasso, of course) o l’introduzione di nuovi e più estesi “contributi di solidarietà” o addirittura tagli lineari alle pensioni, sopra una certa soglia.

E’ stato anche presentato, da un variegato numero di parlamentari, un progetto di legge costituzionale (proposta di legge n. C3478) inteso a riformare l’art. 38 della Costituzione, all’evidente scopo di rimettere in discussione i trattamenti pensionistici già liquidati.

Tale proposta di modifica costituzionale, dietro il paravento letterale dell’equità, ragionevolezza e non discriminazione tra generazioni, alle quali si dovrebbe ispirare l’azione dell’INPS, nasconde il vero intento di sterilizzare il bilancio previdenziale: i pensionati più abbienti dovranno sacrificare una parte della loro pensione a favore di quelli più bisognosi, senza che il bilancio dello Stato pubblica ne sia gravato.

Sennonché i “pensionati poveri” sono quelli che non hanno versato contribuiti, o ne hanno versati pochi, in rapporto al trattamento goduto.

Non c’è niente di male, anzi, che sia garantita anche a loro una vecchiaia dignitosa.

Ma perché far pagare le loro pensioni ad altri pensionati, in una logica redistributiva, anziché dall’intera collettività attraverso la fiscalità generale?

Si tratta, infatti, incontestabilmente di una spesa assistenziale e non previdenziale.

Ecco dunque, in tutta la sua gravità, il male che affligge il sistema previdenziale italiano: la commistione tra assistenza e previdenza.

Già, perché molti trattamenti pensionistici, erogati dall’INPS, sono poco o nulla sorretti da adeguata contribuzione: pensioni integrate al minimo, baby-pensioni e, in generale, pensioni assistenziali e sociali.

Ma anziché separare convenientemente le due categorie di spesa, si mantiene, anzi si aumenta la confusione tra esse.

Eppure, secondo l’art. 41 della legge n. 88 del 1989 , va assicurato l’equilibrio finanziario delle gestioni previdenziali. Dunque, il bilancio dello Stato non deve coprire con trasferimenti a carico della fiscalità generale la differenza tra uscite per prestazioni della previdenza ed entrate contributive: vanno invece adeguate le aliquote contributive.

Già, ma qual è il bilancio previdenziale?

Coerenza vuole che, in un sistema previdenziale a ripartizione come quello vigente, in cui i contributi incamerati in un determinato periodo vengono utilizzati per finanziare le pensioni erogate in quello stesso periodo, l’entità dei contributi sia proporzionalmente commisurata.

Ed è quello che prevede l’inapplicato (ma vigente) art. 41 della legge n. 88 del 1989, sopra menzionato.

Ovvio che, invece, questa coerenza viene scardinata dalla confusione tra erogazioni previdenziali ed assistenziali.

Oltretutto, la gestione assistenziale, pure affidata all’INPS, presenta contorni tutt’altro che ben definiti.

Il 3° comma, lett. c, dell’art. 37 della legge n. 88 del 1989 ci fa capire molte cose: una “quota parte” di TUTTE, INDISCRIMINATAMENTE, le pensioni è qualificata come assistenziale.

Si tratta di un dato puramente empirico e convenzionale.

In concreto, è stata fissata una certa cifra nel 1988 (16.504 miliardi di lire) rivalutata annualmente. Nel 2016 si è trattato di 20,3 miliardi di euro che sono stati trasferiti all’INPS dal bilancio dello Stato, per coprire il disavanzo delle gestioni previdenziali (vd., sul punto, la relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, flash n. 6, reperibile sul sito istituzionale www.upbilancio.it).

Ma quali sono le pensioni che hanno bisogno di questo sostegno assistenziale, e quali invece no?

Quali più e quali meno?

Non lo sappiamo.

E come si fa a stabilire se, e quanto, aumentare le aliquote contributive per mantenere in pareggio il bilancio previdenziale, ex art. 41 legge n. 88 del 1989?

Nemmeno possiamo saperlo, se non sappiamo precisamente qual è il bilancio (strettamente) previdenziale, nella descritta “confusione assistenziale”!

Articolo di Lorenzo Stevanato (Magistrato in pensione) pubblicato il 19.12.17 su Formiche.net  Quello che tutti dovrebbero sapere sui bilanci Inps

Sentenza 250/2017 della Consulta: un “pieno” di ipocrisie, false verità, pregiudizi e contraddizioni

La sentenza in esame ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero (L. 214/2011), come modificati-integrati dal decreto 65/2015 (convertito nella legge 109/2015), che avrebbero dovuto recepire i contenuti della precedente sentenza 70/2015 della stessa Corte, che aveva giudicato incostituzionale la norma della legge Fornero che limitava la perequazione delle pensioni in godimento, nel biennio 2012-2013, solo per quelle di importo lordo fino a 3 volte il minimo INPS e nella misura del 100%.

Vediamo e commentiamo le principali motivazioni della sentenza 250/2017, ricordando che il decreto Renzi-Poletti (n. 65/2015) ha rideterminato la perequazione delle pensioni oltre le 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo nel seguente modo: 40% per le pensioni tra 3 e 4 volte il minimo INPS (anziché il 95% della legge Letta 147/2013); 20% per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo INPS (anziché il 75%); 10% per le pensioni tra 5 e 6 volte il minimo INPS (anziché il 50%), lasciando naturalmente ancora al 100% la rivalutazione delle pensioni fino a 3 volte il minimo INPS ed escludendo nuovamente da ogni rivalutazione le pensioni di importo superiore a 6 volte il minimo INPS.

  1. Il decreto 65/2015, secondo la sentenza, non avrebbe eluso il giudicato costituzionale della precedente sentenza 70/2015, ai sensi dell’art.136 della Costituzione. In realtà lo ha eluso, nella misura della rivalutazione, per le pensioni oltre le 3 volte e fino alle 6 volte il minimo INPS, mentre lo ha del tutto disatteso per le pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, cui non è stata riconosciuta rivalutazione alcuna. Infatti i “termini esposti” nella sentenza 70/2015, cioè che la originaria previsione della legge Fornero avesse intaccato “diritti fondamentali, connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)”, sono chiarissimi e si riferiscono certamente anche alle pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS. Inoltre, come riconosce la stessa sentenza 250, “la disciplina dettata dal legislatore deve essere valutata nella sua interezza, perché costituisce un complessivo – ancorché temporaneo – nuovo disegno della perequazione dei trattamenti pensionistici”. Quindi è la stessa Corte di oggi che non rispetta e non crede alle sue sentenze di ieri, a Costituzione immutata.
  2. La sentenza 250/2017 afferma che il decreto 65/2015 non poteva, nel caso in questione, nell’accogliere le sollecitazioni di “questa Corte” (sentenza 70/2015), “che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti – come in effetti è stato – all’arco temporale relativo agli anni 2012 e 2013, cui faceva riferimento la disposizione annullata”. In realtà, ancorché retroattivo, l’effetto del decreto 65/2015 non è stato limitato al biennio 2012 e 2013, infatti (comma 25-bis) per i percettori di pensioni oltre 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo, si è protratto per il biennio successivo (2014 e 2015), con abbattimento al 20% di quanto già concesso a titolo di perequazione nel biennio precedente e, dal 2016 in poi, con abbattimento al 50%. Questa concessione (prima) e retrocessione (poi) è una assoluta contraddizione, in tema di riconosciuta perequazione delle pensioni. Anche per i percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS l’effetto perverso della legge Fornero, ribadito dal decreto 65/2015 (comma 25, sub e) si è protratto a tempo indeterminato, dimostrando che la Corte, su questi aspetti, non ha affermato il vero. In concreto, il decreto 65 ha restituito circa il 10% di quanto maltolto dalla legge Fornero in tema di perequazione nel 2012-2013.
  3. La sentenza 250/2017 afferma che “Deve escludersi che, in capo ai titolari di trattamenti pensionistici, si fosse determinato un affidamento nell’applicazione della disciplina immediatamente risultante dalla sentenza 70/2015” (cioè i migliori criteri perequativi della legge 388/2000, preesistente alla legge Fornero). La Corte evidentemente dimentica che i massimi esponenti dello stesso Organismo avevano dichiarato pubblicamente che la sentenza era “immediatamente applicativa” e bisogna proprio dare degli sprovveduti, specie a coloro che si erano rivolti alla magistratura per veder riconosciuto il loro diritto alla perequazione, qualora essi avessero ritenuto ininfluente la sentenza 70/2015, anche per quanto riguarda il contenzioso in atto.
  4. Veramente penosa e fuorviante risulta la argomentazione della sentenza 250/2017 circa la oziosa, e del tutto opinabile, questione se l’onere imposto dalla mancata indicizzazione delle pensioni “per soli due anni”, con conseguente “trascinamento”, sia “onere esorbitante” rispetto alle esigenze “di interesse generale, perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis”, come modificati-introdotti dal decreto 65/2015. In realtà negli ultimi 11 anni, per 8 anni (72% del periodo) la indicizzazione delle pensioni oltre le 6/8 volte il minimo INPS è stata del tutto azzerata nel 2008, 2012, 2013, limitata al 40% nel 2014 fino all’importo di 6 volte il minimo INPS (circa 3.000 €) e ancora azzerata sugli importi ulteriori, ridotta al 45% sull’intero importo dell’assegno negli anni 2015, 2016, 2017, 2018. Come conseguenza di tale accanimento, la pensione di questa categoria di pensionati ha perso non meno del 10-15% del suo valore reale, ed in via definitiva e crescente (ad oggi, da circa 500 a 1.000 € netti/mese, a seconda della misura della pensione di diritto in godimento).
  5. La sentenza 250/2017 esclude in modo stizzito, ribadendo un suo precedente giudizio, cioè che “le misure di blocco della rivalutazione automatica, ed il suo effetto di trascinamento, abbiano natura tributaria”, quasi che fosse impossibile modificare le statuizioni precedenti, quando errate, ovvero confermare quelle coerenti con la lettera e lo spirito della Costituzione vigente. La motivazione secondo cui le misure di blocco della perequazione “non ne muta la natura di misura di mero risparmio di spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo” è veramente ridicola, ancor più dopo che la legge 196/2009 ha stabilito (come da consolidata logica economica e contabile) che la copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi e maggiori oneri, ovvero minori entrate, può essere determinata anche “mediante riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa”. E così i sacrifici imposti ai pensionati anzidetti sono andati ad alimentare provvedimenti, altrettanto impropri del Governo Renzi, quali il bonus degli 80 €/mese ai redditi medio-bassi, ma senza rinnovare il contratto scaduto dei pubblici dipendenti e indicizzare le pensioni medio-alte, il bonus-mamme, il bonus-bebé, il bonus-casa, il bonus-cultura, ecc., tutte scelte discrezionali e discriminanti, senza pensare alle esigenze di carattere generale, e ancor meno a ridurre il debito della Stato, o a ridurne il deficit annuale, ma solo a raccattare un consenso immeritato con denaro altrui.
  6. La sentenza 250, dopo aver ricordato che la rivalutazione automatica delle pensioni “ si prefigge di assicurare il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti di quiescenza” e di aver fatto riferimento, nella sua decisione, ai principi di solidarietà, razionalità-equità, quindi di ragionevolezza, “tenuto conto del contenimento della spesa e chiarendo che deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le esigenze di vita” dei singoli pensionati, dichiara di aver raggiunto l’obiettivo “per il tramite e nella misura” dell’art. 38, secondo comma, della Cost., il che comporta “solo indirettamente” un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost. (in piena dissonanza quindi dalle conclusioni della sentenza 70/2015), conclude con queste affermazioni sconcertanti:
  • che le esigenze del legislatore sono preservate “attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere d’acquisto dei propri trattamenti”. Per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS (che, tra l’altro, sono quelli che hanno il miglior rapporto tra contributi versati e relative prestazioni previdenziali) il sacrificio della perequazione è, in realtà, totale e permanente;
  • che le pensioni medio-alte (individuate in quelle oltre le 6 volte il minimo INPS) presentano “margini di resistenza all’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione”. In realtà l’inflazione non distingue tra pensioni alte o basse, ma quelle alte subiscono maggiore danno perché sono gravate da un carico fiscale progressivo e crescente e la loro indicizzazione (a prescindere da tagli o blocchi) è già percentualmente ridotta in via ordinaria;
  • che negli anni 2011 e 2012 l’inflazione è “di livello piuttosto contenuto”. Falso! Infatti il recupero inflattivo riconosciuto, rispettivamente negli anni 2012 e 2013, è stato del + 2,7% e del + 3%;
  • che il taglio (per le pensioni oltre le 3 volte e fino a 6 volte il minimo INPS) o il blocco (per le pensioni oltre le 6 volte) “possa pregiudicare l’adeguatezza degli stessi (trattamenti), considerati nel loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita”. Qui il ragionamento è paradossale ed irrealistico perché concepisce il termine adeguatezza in modo statico, cioè di pensione sufficiente per definizione, in quanto superiore a 6 volte il minimo INPS, anziché dinamico perché rapportato alle esigenze di vita dei singoli pensionati, che sono mutevoli nel tempo, per definizione, in considerazione del progredire dell’età ed ai maggiori bisogni di salute ed ai costi delle cure connesse, che richiedono tutela. Anzi, dalla sentenza pare emergere una interpretazione del significato “adeguamento” di senso opposto a quello comune (cioè di crescita), vale a dire di volontà di “adeguare” le pensioni più alte a quelle di misura inferiore attraverso il blocco protratto della indicizzazione delle prime . Sapevamo che quelle anzidette erano le opinioni del Prof Giulio Prosperetti, che nella primavera 2015 aveva criticato per iscritto la sentenza 70/2015 come “manifestamente inadeguata”, lodando l’intento virtuoso del legislatore (Monti-Fornero), cioè “quello di provocare un graduale abbassamento delle pensioni”, naturalmente di quelle alte, in un afflato demagogico populista-pauperista, in spregio a qualsivoglia valutazione dei meriti maturati. Anche il Prof. Antonio Augusto Barbera aveva criticato la stessa sentenza, non a caso prontamente nominati dalle Camere a dicembre 2015 in qualità di giudici costituzionali. Ci auguravamo, tuttavia, che tali opinioni fossero isolate, o comunque minoritarie, ed invece ci troviamo oggi a constatare che tali giudici contribuiscono a dare la interpretazione autentica di una sentenza che avevano pubblicamente criticato.
  • Infine, nell’applicare il principio di proporzionalità ai trattamenti di quiescenza – considerati nella loro funzione sostitutiva del cessato reddito di lavoro – la Corte nella sentenza 250 ha precisato che ciò non comporta “un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione” (cosa peraltro che nessuno di noi ha mai chiesto e chiede), e che la garanzia dell’art. 38 Cost. (adeguatezza nel tempo delle pensioni) “è agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale”. Dalle considerazioni anzidette la sentenza 250/2017 giunge alle conclusioni che le argomentazioni esposte, anche con riferimento al principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost., muovono nella direzione della “non irragionevolezza” del “bilanciamento” operato dai commi 25 e 25-bis tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Senonché perché ci sia un bilanciamento effettivo bisogna che su entrambi i piatti della bilancia ci sia qualcosa, mentre sul piatto della bilancia degli interessi dei pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS non c’è nulla. Inoltre ci vuole un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzione e contribuzione previdenziale, può poi trovarsi a godere di una misura pressoché identica di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.).

Naturalmente le esigenze finanziarie dello Stato non hanno tratto alcun beneficio dall’accanimento contro le pensioni dei titolari di assegni oltre le 6 volte il minimo INPS. D’altra parte cosa si poteva sperare, tartassando 770.000 pensionati, lasciando pressoché immuni (o marginalmente penalizzati) gli altri 15 milioni e mezzo di colleghi pensionati anch’essi?.

E così il debito dello Stato è continuato a salire e l’equilibrio di bilancio (anzi, il pareggio di bilancio, sacralizzato in Costituzione nel 2012) è di là da venire.

E perché gli squilibri e gli errori nel bilancio dello Stato non si correggono, anziché rubando dalla tasca dei pensionati che non beneficiano della no tax area, anzi vengono tassati due volte, evitando piuttosto gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia dei bonus), nonché combattendo la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.? Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dai pensionati.

In definitiva, ritengo che la sentenza in commento sia vergognosa e contraddittoria, ma certo qualche imbarazzo devono averlo avuto anche gli attuali giudici costituzionali, se hanno avuto il pudore di non andare al di là della definizione di “non irragionevolezza” attribuito alle norme di cui ai commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero, come rinnovati dal decreto 65/2015 del Governo Renzi.

Tuttavia è insopportabile l’ipocrisia della Corte nel “far finta” che ci sia continuità e coerenza tra la sentenza 70/2015 e 250/2017 per poter “bollinare” come costituzionalmente legittimo l’inguardabile decreto 65/2015, convertito in legge 109/2015.

Questa sentenza ripropone oggi la questione enorme del modo di essere della Corte costituzionale, cioè di Organismo compiacente al limite del servilismo nei confronti del Potere politico e legislativo, vera appendice della politica, anche della peggior politica, al punto di disattendere principi e valori della Costituzione vigente e sconfessare decenni di sentenze coerenti in materia previdenziale, addirittura interpretando la nostra Carta alla luce di quella che non è ancora legge, ma semplicemente disegno di legge costituzionale (dei deputati Mazziotti ed Altri) di modifica dell’art. 38 della Costituzione, che vorrebbe dettare criteri, modalità, limiti attraverso i quali realizzare, o contingentare, l’adeguamento delle pensioni.

Senza precise garanzie di indipendenza, qualità e libertà di giudizio, la Corte costituzionale non ha alcuna utilità e ragione di essere.

Dott. Carlo Sizia – Comitato direttivo nazionale FEDER.S.P.eV.

Ma c’è ancora una giustizia in Italia ?

Nel “silenzio” più assoluto dei giornali e dei mass-media, la CONSULTA ha DEPOSITATO il 1° Dicembre u.s. la Sentenza 250/2017, quella che era stata anticipata – il 25/10/17- da un comunicato stampa e che NOI PENSIONATI ESASPERATI avevamo allora commentato con alcuni articoli “premonitori”.

La sostanza non è cambiata. La Consulta, smentendo una lunga serie di precedenti Sue sentenze (l’ultima delle quali è la n° 70/2015) e ricopiando letteralmente le motivazioni dell’avvocatura dell’INPS e del governo, LEGITTIMA la MANCATA RIVALUTAZIONE 2012-2018 delle PENSIONI, con giustificazioni POLITICHE e NON GIURIDICHE.

Nihil sub sole novi ! Lo avevamo scritto, in tempi non sospetti, lo ribadiamo ora. Concordiamo totalmente con quanto scritto in merito da Giorgio GANDOLA (La Verità, 3/12/17, pag.5). Nei prossimi giorni pubblicheremo e diffonderemo un nuovo commento su questa “inquietante sentenza”, firmata dal giudice Silvana Sciarra. Inquietante perché considera “transitorio e parziale” un danno non solo pluriennale (anni 2012-2018, per ora) ma perpetuo, perché ha avuto ed avrà effetti negativi sull’intera vita pensionistica del pensionato (pensione diretta ed indiretta ).

PENSIONATI ESASPERATI… un giorno o l’altro voterete. RicordateVi di chi Vi ha fatto questo ennesimo TORTO !

(Commento a cura di Lenin )

Alleghiamo articolo di ieri domenica 3 dicembre 2017 su La Verità:

ASSALTO alle PENSIONI_LaVerità (03.12.17)

PEREQUAZIONE PENSIONI: DAL LEGISLATORE UN BILANCIAMENTO NON IRRAGIONEVOLE DEGLI INTERESSI COINVOLTI (01.12.2017)

Ufficio Stampa della Corte costituzionale Comunicato del 1° dicembre 2017 

Il decreto-legge n. 65 del 2015 sulla perequazione delle pensioni – emanato in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 – non è una «mera riproduzione» del Dl 201 del 2011 (cosiddetto Salva-Italia) perché ha introdotto una disciplina «nuova» e «diversa», ancorché temporanea, della rivalutazione automatica delle pensioni per gli anni 2012 e 2013. In particolare, ha riconosciuto la rivalutazione in misura proporzionale decrescente anche alle pensioni – prima escluse – comprese tra quelle superiori a tre volte il trattamento minimo Inps e quelle fino a sei volte lo stesso trattamento.

Non vi è stata, dunque, alcuna violazione del giudicato costituzionale. È il primo punto fermo messo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 250 depositata oggicon cui sono state respinte tutte le censure al Dl 65/2015 contenute in 15 ordinanze.

La pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza della Consulta ed è in piena continuità con la sentenza n. 70 del 2015 che dichiarò invece l’illegittimità costituzionale della disciplina del D.l. Salva-Italia. 

Secondo la Corte, con quel D.l. il legislatore aveva fatto un «cattivo uso» della propria discrezionalità, bilanciando in modo irragionevole l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere d’acquisto delle pensioni con le esigenze finanziarie dello Stato, in quanto «aveva irragionevolmente sacrificato il primo», in particolare quello dei titolari di «trattamenti previdenziali modesti», in nome di esigenze finanziarie «neppure illustrate». 

Di qui la sollecitazione – con la sentenza n. 70/2015 – di un nuovo intervento legislativo per bilanciare in modo diverso i valori e gli interessi coinvolti, nei limiti di «ragionevolezza e proporzionalità», senza sacrificare nessuno dei due irragionevolmente. Il successivo Dl 65/2015 ha seguito queste indicazioni, ovviamente con effetto retroattivo, seppure limitatamente al biennio 2012-2013. 

Quanto basta per escludere che i pensionati abbiano potuto fare «affidamento» sulla disciplina immediatamente risultante dalla sentenza 70 (tanto più che il D.l. è stato emanato ed è entrato in vigore a distanza di soli 21 giorni dal deposito della sentenza).

Secondo la Corte, il blocco della perequazione per due soli anni e il conseguente “trascinamento” dello stesso agli anni successivi «non costituiscono un sacrificio sproporzionato rispetto alle esigenze, di interesse generale», perseguite dalle disposizioni impugnate.

La sentenza (scritta, come la numero 70/2015, da Silvana Sciarra) ha ribadito che la rivalutazione automatica è uno «strumento tecnico» necessario per salvaguardare le pensioni dall’erosione del loro potere d’acquisto a causa dell’inflazione, e per assicurare nel tempo il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti di quiescenza. 

Ha ribadito anche che va salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le «esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale». È su questo «solido terreno» che il legislatore deve muoversi «bilanciando, secondo criteri non irragionevoli, i valori e gli interessi costituzionali coinvolti»: l’interesse dei pensionati a preservare il potere d’acquisto delle proprie pensioni; le esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato.

In questo bilanciamento il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non può «eludere il limite della ragionevolezza», principio cardine intorno al quale ruotano le scelte in materia pensionistica. Pertanto, se queste scelte si prefiggono risparmi di spesa, questi ultimi devono essere «accuratamente motivati», e cioè «sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi».

E le Relazioni tecniche sono la cartina di tornasole della razionalità di queste scelte. Ebbene, dalla Relazione tecnica e dalla Verifica delle quantificazioni relative al Ddl di conversione del Dl 65/2015 emergono «con evidenza» – diversamente dal Salva-Italia – le esigenze finanziarie di cui ha tenuto conto il legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.

Esigenze che, nell’attuazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici, «sono preservate attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto dei propri trattamenti». Ne è una conferma la scelta «non irragionevole» di riconoscere la perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, sino ad escluderla per quelli superiori a sei volte il minimo Inps. 

«Il legislatore ha dunque destinato le limitate risorse finanziarie disponibili in via prioritaria alle categorie di pensionati con i trattamenti pensionistici più bassi», limitando il blocco a quelli medio-alti (che, per giurisprudenza costituzionale, hanno margini di resistenza maggiori contro gli effetti dell’inflazione, peraltro contenuta nel biennio 2011-2012 come si ricava dalla Relazione tecnica).

Roma, 1 dicembre 2017 Palazzo della Consulta, Piazza del Quirinale 41 Roma – Tel. 06.4698224/06.46984511

COMMENTO dei LEONIDA:

questo comunicato della Consulta si commenta da solo. L’analisi delle ultime 4 righe, ad esempio, testimonia che la Consulta NON SA CHE NEGLI ANNI 2012-2013 c’è stata una INFLAZIONE TOTALE superiore al 5% !!!!!

Sarebbe “inflazione contenuta”, questa ????

Testo_Sentenza 250_01.12.2017

GENTILONI Favorevole ad un Nuovo Contributo si SOLIDARIETA’

Al peggio non c’è mai fine. Ieri (2.12.17), in uno dei tanti programmi RAI, GENTILONI ha dichiarato di essere favorevole ad un NUOVO CONTRIBUTO di SOLIDARIETA’ sulle PENSIONI-MEDIO ALTE…..!!!

Non avevamo dubbi….Ciò che resta del PD impone – con voto di fiducia – una manovra economica 2018 con un buco di circa 20 miliardi, buco che l’UE (ma solo dopo le elezioni di Marzo 2018) imporrà all’ITALIA di chiudere. Come? 

Taglieggiando  ancora una volta  le NOSTRE PENSIONI… anche grazie alla sentenza 25/10/70 della CONSULTA.

PENSIONATI, se avevate dei dubbi, adesso sapete chi ringraziare (la Consulta) e chi non votare (quelli del PD e dintorni) !

( Nota a cura di Lenin)

Complimenti a Pietro Senaldi ! (Editoriale su Libero, 29.11.17)

 

Caro Direttore,

complimenti a Pietro Senaldi e al Suo editoriale del 29 Novembre:  “CHIUDIAMO l’INPS: si prende i contributi e non dice che ne fa”.

Ha riassunto in un articolo quello che NOI PENSIONATI INPS ex INPDAP e INPS-INPS sosteniamo da anni. Ossia che il bilancio INPS è drogato e falso. Drogato perché inserisce voci assistenziali come se fossero previdenziali. Falso perché mescola assistenza e previdenza, a caso, senza focalizzare SPECIFICI e SEPARATI CAPITOLI di SPESA/ENTRATA: da un lato la previdenza VERA, dall’altro, l’assistenza vera e mascherata.

Anni fa BRAMBILLA aveva brillantemente dimostrato che, nel bilancio INPS, la voce PREVIDENZA (“vera previdenza”) è in PAREGGIO se non in attivo (se includiamo l’IRPEF) e che il rosso dell’INPS è legato alle decine di voci assistenziali, sottofinanziate (ed in ritardo) dai governi di turno. Boeri non ha fatto, in questi anni, una gestione corretta ed ha rivendicato per sé un ruolo politico, in molteplici occasioni.

Ringrazio SENALDI, anche a nome di un cospicuo drappello di pensionati , racchiuso sotto i vessilli di LEONIDA . In questi anni, insieme ai sodali di FEDERSPeV, Forum pensionati, CONUP, Pensionati ferrovie, Pensionati CISAL, DIRSTAT ecc. abbiamo attivato decine di cause a tutela delle nostre pensioni, taglieggiate massicciamente dai Governi Letta, Renzi e Gentiloni.  Ci sono stati tolti migliaia di euro, dal 2012 in poi, in nome di che? Del “presunto” buco INPS, della solidarietà intergenerazionale, dei richiami della UE.

Il 25 Ottobre scorso la Consulta ci ha dato torto, ma siamo curiosi di leggere le argomentazioni che stanno alla base di una sentenza “politica” e non “giusta”.

Già tagli ai pensionati, ma non tagli a tutti (pensionati ed attivi ) a parità di reddito. Se le motivazioni fossero esatte. Ma non lo sono.

Ebbene oggi NOI – PENSIONATIESASPERATI – (si veda il sito omonimo!) chiediamo a gran voce ai politici di SEPARARE l’ASSISTENZA dalla PREVIDENZA e di fare chiarezza nei bilanci INPS, prima che l’INPS venga fatto fallire, con i noti pretesti (Boeri, Cazzola e C.).

Direttore, il Suo giornale ci darà una mano ? Stiamo raccogliendo le firme per una petizione sulla separazione tra assistenza e previdenza. E’ disponibile a pubblicare il nostro appello ?

Comunque sia, un grazie a LEI ed a SENALDI.

Stefano Biasioli

-Medico in pensione.- Uno dei Leonida

Testo integrale di Senaldi (Libero 30.11.17)

NUOVE spese ASSISTENZIALI a carico dell’INPS

LA NOTIZIA

L’INPS ha comunicato – con circolare -che, dal 1° Dicembre 2017, sarà possibile fare domanda per la REI (reddito di inclusione).

CONDIZIONI per accedere alla REI:

SOGGETTI INTERESSATI: famiglie di più componenti inclusi i minori (con ISEE <6.000 euro e immobili extra residenza <20.000 euro); disabili; donne gravide; over 55 disoccupati. Ma, dal Luglio 2018, la misura diventa UNIVERSALE, togliendo i paletti (disabili, over 65 ecc.) COMPATIBILE con LAVORO ma non con altri ammortizzatori sociali ( x disoccupazione…)

CIFRA EROGATA: 187,5 euro/persona sola fino a 485 euro/mese per nucleo (5.824,80/anno!) dal 01/01/2018. L’erogazione avverrà con carta elettronica.

DURATA EROGAZIONE: per 12 mensilità/anno e con 18 mesi di erogazione come limite massimo.

PLATEA INTERESSATI: 500.000 famiglie (1,8 milioni di persone) dal 01/01/2018; 700.000 famiglie (2,3 milioni di persone) dal Luglio 2018 !

SOGGETTI COINVOLTI: cittadini comunitari od extracomunitari con soggiorno in Italia per almeno 2 anni.

COSTO: 2 miliardi di euro /2018 (legge di bilancio, Dicembre 2017).

IL COMMENTO

Come volevasi dimostrare ! Il Governo, in fase pre-elettorale, aumenta la spesa assistenziale, caricando l’INPS di nuovi compiti assistenziali, finanziati teoricamente (ma “solo teoricamente”, come al solito) con 2 miliardi di euro/2018. Poiché non ci fidiamo, vedremo se – nel bilancio preventivo e consuntivo INPS 2018 – tale cifra sarà realmente data dal Governo all’INPS o se, ancora una volta, queste voci assistenziali saranno “coperte” (in parte o in niente) dal Ministero dell’Economia con bonifici specifici ed identificabili.

Poiché siamo capaci di usare la calcolatrice, ci permettiamo di dire che 500.000 (famiglie) x 5.824,80 (euro anno) danno un totale di 2,91 miliardi/anno 2016. Ma, a questa cifra, andranno aggiunti i denari legati alle altre 200.000 famiglie, che si aggiungeranno dal Luglio 2018 e, 200.000 x 5.824,80/2 (6 mesi e non 12) portano ad una ulteriore spesa di 0,582 miliardi/2018.

SPESA TOTALE 2018 (2,91 + 0,582 M) = 3,49 miliardi.

CONCLUSIONE (1): spesa assistenziale sottofinanziata e dalla “copertura” incerta.

INFINE

(poiché siamo pensionati esasperati): quante famiglie italiane e quante “famiglie” comunitarie  riceveranno questi benefici ? Chi valuterà le richieste e come verrà decisa la graduatoria di accesso ?

E gli extracomunitari irregolari (madri con bambini, famiglie ricongiunte in qualche modo) saranno anch’essi gratificati? Con quale filtro? Con quali controlli  e garanzie?

CONCLUSIONE (2)

Nuovi compiti assistenziali all’INPS. Nuova esplosione della spesa assistenziale dell’INPS, con ulteriore “buco in bilancio”.

Rinnoviamo la nostra richiesta: SEPARARE l’ASSISTENZA dalla PREVIDENZA, prima che la UE ci accusi di spendere troppo in previdenza ! Già, la previdenza INPS è in pareggio… ma l’assistenza INPS è in netto deficit !

(a cura di Lenin)

Pensioni in Italia: quanto costano? Ecco tutta la verità – 23.11.17

I conti INPS sono sballati sulle pensioni? La realtà sembra un po’ diversa da come la si racconta, anche se esistono diverse ragioni per stare in allerta

di Giuseppe Timpone, pubblicato il 23 novembre 2017, ore 14:01

E’ scontro in Italia sulle pensioni. A dividere governo e parte dei sindacati è l’innalzamento automatico dell’età pensionabile di 5 mesi a 67 anni dal 2019, sulla base della maggiore longevità media rilevata dall’Istat per gli italiani. Si leva la protesta di partiti e organizzazioni sindacali contro quello che viene percepito come un eccessivo irrigidimento dei requisiti anagrafici, considerando che ancora oggi la pur austera Germania continui a mandare in pensione i suoi lavoratori a 65 anni e 7 mesi, in alternativa a 63 anni con una penalizzazione sull’assegno (senza penalizzazione, se con almeno 45 anni di contributi versati). La realtà appare, però, abbastanza diversa da quella che una lettura superficiale dei numeri ufficiali farebbe 

credere. Infatti, attraverso le varie scorciatoie previste dalle norme previdenziali, l’Inps ha rilevato come gli italiani siano andati mediamente in pensione nel 2016 a 62 anni, 2 in meno della media europea. (Leggi anche: Pensioni, età e costi: e se ognuno uscisse da lavoro quando vuole?) https://www.investireoggi.it/economia/pensioni-eta-costi-ognuno-uscisse-dal-lavoro-vuole/

Nel 2015, la spesa per le pensioni ammontava a quasi 218 miliardi, a fronte di contributi versati da lavoratori, imprese e Pubblica Amministrazione (per i dipendenti pubblici) di 191,3 miliardi. In pratica, ogni anno l’Inps incassa tendenzialmente sui 25-26 miliardi in meno di quanti ne spende per le sole pensioni. Tale differenza viene coperta dallo stato, che attinge allo scopo dalla fiscalità generale. 

In realtà, quando si parla di previdenza, i costi sarebbero ben più elevati, se si considerano anche altre voci come la malattia, la cassa integrazione, le indennità di disoccupazione, incentivi all’occupazione, maternità, etc. Tuttavia, parlando di pensioni in senso stretto, il dato a cui fare riferimento sarebbe quello dei 218 miliardi di due anni fa. E, però, quello è un dato al lordo delle imposte versate dai pensionati e che al netto scenderebbe a 168,5 miliardi. Anche volendo scomputare la somma versata dalla PA per i contributi dovuti in favore dei dipendenti pubblici, l’Inps incasserebbe 172,2 miliardi, cioè 3,7 miliardi in più. In definitiva, lo stato italiano spenderebbe 25-26 miliardi ogni anno per coprire il “buco” che altrimenti l’Inps registrerebbe per via delle minori entrate, ma  allo stesso tempo dalle pensioni percepirebbe quasi 50 miliardi in forma di tassazione. Pertanto, al netto incasserebbe circa l’1,5% del pil, ovvero sui 25-26 miliardi. E se anche tenessimo in considerazione i contributi versati dalla PA, il saldo netto per lo stato resterebbe positivo per 4-5 miliardi all’anno, in quanto incasserebbe dalle pensioni oltre 49 miliardi di gettito fiscale, spendendo circa 44,5 miliardi in tutto.

Conti INPS in equilibrio, ma spese altissime

E allora sembra che i conti Inps siano piuttosto in equilibrio, analizzandoli insieme a quelli dello stato. Tuttavia, ragioni per essere preoccupati ve ne sarebbero. In primis, tali conti si reggono su una contribuzione nettamente più elevata della media OCSE. Da noi, su uno stipendio lordo si versa il 32,7% contro il 21%, percentuale che scende al 19,5% in Germania. La speranza di vita risulta, poi, in Italia mediamente di 2 anni più alta della media OCSE e al 2050 sarà cresciuta di ben 22 anni in appena un secolo. A fronte di ciò, il tasso di occupazione da noi si attesta appena al 58% contro la media europea del 66%, segnalando che a versare contributi siano meno lavoratori che altrove, pur dovendo sostenere una spesa pensionistica quasi doppia della media OCSE, alimentata anche da un tasso di sostituzione lordo (rapporto tra pensione e ultimo salario percepito) del 67,9% contro il 59%. 

In conclusione, i conti delle pensioni in Italia non sarebbero affatto squilibrati, nel senso che mettendo insieme quelli di Inps e stato, gli esborsi verrebbero più che coperti. Il problema è che questi risultano altissimi, obbligando lavoratori e imprese a versare una percentuale spropositata di contributi. Servirebbe alzare l’età pensionabile, ma partendo da quella effettiva, non agendo sempre e comunque sul requisito anagrafico, che in sé non assicura nemmeno un risparmio per le casse Inps, se nel frattempo viene consentito al lavoratore di trovare alternative per uscire prima dal lavoro, ricorrendo alla pensione anticipata. E per quanto sia impopolare dirlo, sarebbe opportuno accelerare sul taglio degli assegni, mantenendo i livelli minimi, così come bisognerebbe mettersi in testa, una volta per tutte, che senza un aumento considerevole del numero degli occupati, non c’è riforma che tenga. (Leggi anche: Sistema pensionistico in Italia fallito, cosa ci insegna il modello cileno) https://www.investireoggi.it/economia/pensioni-italia-sistema-salta-esiste-unalternativa/ 

Riappare “Cottarelli”

Dal quotidiano “La Stampa” apprendiamo che Carlo Cottarelli – ex Commissario per la revisione della spesa, licenziato da Renzi perché troppo bravo ed indipendente – è stato appena nominato Direttore del Nuovo Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano.
“La Stampa” del 17 u.s. ha pubblicato un suo articolo dal titolo “Conti pubblici. Basta rinviare il risanamento” che trae lo spunto da quanto ha detto al riguardo Katainen.

Sarà interessante seguire gli articoli futuri di Cottarelli per vedere quali misure verranno da Lui suggerite per il risanamento. Continuerà con le proposte fatte due anni fa e per le quali è stato ingiustamente cacciato?

http://www.lastampa.it/2017/11/17/cultura/opinioni/editoriali/conti-pubblici-basta-rinviare-il-risanamento-BRqaOtmhj7rjz86ip4gwGM/pagina.html