Intervento di Michele Poerio, Segretario Generale Confedir e Presidente Nazionale Federspev, e Carlo Sizia, Comitato Direttivo Nazionale Federspev
Pubblicato su Formiche.net il 6 gennaio 2018.
Dopo il biennio 2016-2017 di pensioni “tutte bloccate” – in ragione del fatto che l’Istat ha certificato per due anni consecutivi un indice di svalutazione provvisoria (poi risultata definitiva) pari allo 0% o addirittura di poco negativa – dal 2018 le pensioni riprenderanno a crescere leggermente.
Infatti il decreto 20/11/2017 (in G.U. dal 30/11 scorso) del ministero dell’Economia e delle Finanze ha stabilito (art. 2) che, sulla base dei dati accertati fino a settembre 2017, “la percentuale di variazione per il calcolo della perequazione delle pensioni per l’anno 2017 è determinata in misura pari a + 1,1% dal 1° gennaio 2018, salvo conguaglio da effettuarsi in sede di perequazione per l’anno successivo”.
Il conguaglio anzidetto sarà positivo qualora la svalutazione definitiva del 2017 sul 2016 risultasse superiore a quella previsionale dell’1,1%, ma sarà negativo qualora la svalutazione definitiva risultasse inferiore a quella prevista in via provvisoria.
Non si darà comunque luogo a conguaglio alcuno quando svalutazione previsionale e definitiva risultassero coincidenti, come accaduto ad esempio negli anni 2016-17.
Tuttavia un piccolo conguaglio negativo (- 0,1%), di poche decine di euro, ci sarà nel 2018 per recuperare lo 0,1% di differenziale tra inflazione previsionale (+ 0,3%) e definitiva (+ 0,2%) registrato nel 2015. Tale recupero avrebbe dovuto intervenire nel 2016, ovvero nel 2017, ma in entrambi i casi sono state approvate norme di salvaguardia (nelle leggi 208/2015 e 244/2016) secondo il principio che, anche in caso di inflazione negativa, le pensioni in pagamento non possano essere decurtate rispetto all’importo nominale in essere.
Qui di seguito vengono riportati gli indici di svalutazione (provvisori e definitivi) e di rivalutazione dell’ultima dozzina
Per effetto dell’anzidetto d. m. Economia, nel 2018: il trattamento minimo Inps passa da 501,89 €/mese a 507,41 €/mese; il valore dell’assegno sociale da 448,07 a 452,99 €/mese; la pensione sociale passa da 369,26 a 373,32 €/mese.
Tuttavia, secondo il meccanismo introdotto dalla legge Letta (L. 147/2013, a valere per il triennio 2014-2016, poi prorogato per un ulteriore biennio, fino a tutto il 2018, dalla legge 208/2015), il criterio di rivalutazione degli assegni al costo della vita (+ 1,1 % anzidetto) opera nel seguente modo:
- pensioni lorde fino a 3 volte il minimo INPS: rivalutazione piena al 100% = + 1,1%;
- pensioni lorde tra 3 e 4 volte il minimo INPS: rivalutazione limitata al 95% = + 1,045%;
- pensioni lorde tra 4 e 5 volte il minimo INPS: rivalutazione limitata al 75% = + 0,825%;
- pensioni lorde tra 5 e 6 volte il minimo INPS: rivalutazione limitata al 50% = + 0,55%;
- pensioni lorde oltre 6 volte il minimo INPS: rivalutazione limitata al 45% = + 0,495%.
Il criterio di perequazione introdotto dalla legge Letta è nettamente peggiorativo rispetto al meccanismo precedente (legge 388/2000), infatti:
a) porta da 3 a 5 le fasce economiche di importo pensionistico prese a riferimento per la rivalutazionee
b) l’incremento (in percentuale progressivamente decrescente) opera sull’intero importo della pensione goduta, anziché in misura distinta sulle diverse fasce di importo,cioè in misura del 100% per gli importi fino a 3 volte il minimo Inps, del 90% per gli importi successivi tra 3 volte e 5 volte il minimo Inps e del 75% per gli ulteriori importi oltre le 5 volte il minimo Inps (come avveniva in precedenza per i vari segmenti di una singola pensione).
Si passa quindi per le pensioni medio-alte (diciamo quelle oltre le 6 volte il minimo Inps) da un recupero complessivo tra l’80 – 85%, rispetto all’inflazione accertata, a meno del 50%.
Anche la legge Fornero (L. 114/2011), pur non modificando i criteri della legge 388/2000, aveva pesantemente alterato la perequazione previgente, escludendo per il biennio 2012 e 2013 dalla rivalutazione tutte le pensioni di importo oltre le 3 volte il minimo INPS. In aggiunta, il decreto legge 65/2015 (convertito nella legge 109/2015), intervenuto dopo le censure della sentenza 70/2015 della Corte costituzionale, non ha sanato le malefatte dei nostri legislatori sprovveduti, ristorando in modo parziale e decrescente i percettori di pensioni di importo oltre le 3 volte il minimo Inps e fino alle 6 volte, lasciando ancora totalmente senza rivalutazione le pensioni di importo oltre le 6 volte il minimo.
Gli unici pensionati sempre tutelati dall’inflazione sono stati pertanto, anche negli anni difficili della congiuntura economica, esclusivamente i titolari di assegni fino a 3 volte il minimo INPS.
Prendendo a riferimento gli ultimi 11 anni (dal 2008 al 2018 compresi), si può dire con sicurezza che gli interventi peggiorativi sulla perequazione delle pensioni oltre le 6 volte (e ancor più oltre le 8 volte il minimo Inps), intervenuti per il 72,72% del periodo anzidetto in deroga ai criteri della legge 388/2000, hanno determinato una perdita permanente del potere d’acquisto delle pensioni in questione di non meno del 10-15%, in concreto da 500 € netti mensili circa a più di 1000 € mensili, anche senza tener conto dell’appesantimento fiscale delle addizionali comunali e regionali intervenute dai primi anni duemila e del taglieggiamento crescente del cosiddetto “contributo di solidarietà”, intervenuto da ultimo nel triennio 2014-2016 sulle pensioni di importo oltre le 14 volte il minimo Inps.
Anche senza gli interventi sgraziati anzidetti, c’è da dire che la perequazione automatica delle pensioni non raggiunge mai pienamente il pieno ristoro dall’inflazione per almeno i seguenti principali motivi: 1) perché il recupero interviene in tempi successivi rispetto al momento dell’insulto inflattivo; 2) perché il “paniere” che pesa l’incremento del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati non è specifico per le persone anziane, anche se rappresenta la base per la rivalutazione riconosciuta delle pensioni; 3) perché, anche in via ordinaria, la percentuale di rivalutazione è riconosciuta in misura progressivamente decrescente al crescere dell’importo della pensione goduta.
Contro la cattiva legislazione previdenziale evidenziata, oggi non rappresenta più un argine neppure la Corte Costituzionale, soprattutto in ragione dei criteri di nomina dei relativi componenti, basati su valutazioni politico-partitiche, anziché su solide motivazioni di competenza, valore, imparzialità.
Assistiamo quindi spesso a sentenze della Corte che rivelano un imbarazzante ossequio rispetto agli input che provengono dal Palazzo, anche a costo di sconfessare lettera e spirito di principi e valori della Costituzione vigente (su tutti quelli di cui agli artt. 3, 36, 38 e 53) e decine di precedenti sentenze della Corte stessa su analoga materia (da ultimo, la sentenza 250/2017, che ribalta la precedente sentenza 70/2015).
Non rimane che esclamare: “Povera Italia, poveri pensionati, poveri giovani d’oggi, sfortunati pensionati di domani!”.